LUMSA/SAPIENZA La cornice etico-giuridica della professione di psicologo: dimensione contestuale, criticità, problemi aperti

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Pietro Stampa

La cornice etico-giuridica della professione di psicologo
Dimensione contestuale, criticità, problemi aperti

Cos’è un Albo e cos’è un Ordine professionale
Per cominciare, cerchiamo di chiarire la natura e le funzioni dell’Ordine professionale in
quanto istituzione sociale e giuridica, per ottenere il quale dal Parlamento gli psicologi si sono
battuti quasi venti anni (1971-1989) e la cui compiuta realizzazione pratica, — essendo nel
frattempo passato un altro trentennio — sta assorbendo ancora grandi energie.
In senso generale, con l’espressione “ordinamento professionale” si intende
l’organizzazione formale di una determinata professione, e cioè il complesso di regole che in
alcuni casi ne determinano, in altri ne indirizzano l’esercizio da parte del professionista:
queste norme fissano
— competenze, sedi e strutture nelle quali è possibile esercitare la professione,
— formazione necessaria per accedervi,
— modalità corrette di rapporti fra colleghi, con clienti e committenti, con lo Stato e i suoi
organismi.
Più precisamente, l’Ordine Professionale è un Ente pubblico, che amministra secondo varie
funzioni la comunità dei professionisti afferenti a un Albo. Si può aggiungere, per
completarne la denominazione, che l’Ordine
— è un Ente pubblico non-economico, in quanto la sua esistenza e attività non grava sul
bilancio dello Stato, ma è assicurata dalla corresponsione delle quote annuali dei
professionisti iscritti,
— ed è un Ente detto esponenziale, in quanto i suoi vertici (il Consiglio dell’Ordine, che
sceglie al proprio interno il Presidente, il vice-Presidente, il Segretario e il Tesoriere) sono
eletti direttamente dai professionisti iscritti e non dal Governo (ciò che avviene invece per i
vertici di altri Enti pubblici, come per es. la RAI o l’INPS). In tal senso, l’Ordine è una sorta
di “cinghia di trasmissione”, un’istituzione di interfaccia fra la comunità dei professionisti e lo
Stato. Ne consegue che, per un verso, il carattere pubblico dell’Ente rende vincolanti per i
professionisti le norme da esso emanate; e per un altro verso, che queste norme sono emanate
da rappresentanti dei professionisti stessi, e non da un’autorità statale estranea alla loro
comunità.

L’Ordine professionale è una grande conquista per la categoria degli psicologi. Fino al
1989 — lo sanno bene i colleghi più anziani — la professione era “scoperta” di fronte a
qualsiasi attacco. Vi erano sedicenti psicologi, privi delle più elementari qualifiche e
competenze, che esercitavano impunemente; accadeva che dai settori più reazionari del
mondo della medicina giungessero denunce alla Magistratura contro gli psicologi per
“esercizio abusivo della professione medica”; non vi era alcuna struttura in grado di
provvedere alla previdenza, l’assistenza mutualistica (oggi abbiamo un Ente autonomo di
previdenza e assistenza dedicato alla professione di psicologo: l’ENPAP); e più in generale, il
ruolo dello psicologo non era riconosciuto pubblicamente come un ruolo autonomo, di pari
dignità culturale con le altre professioni. Da molti anni gli psicologi lavoravano nei propri
studi professionali, nel Servizio Sanitario pubblico, nella Scuola, nelle Forze Armate, nelle
aziende: spesso, tuttavia, non esisteva in queste organizzazioni un “profilo professionale” di
psicologo, e gli psicologi erano inquadrati normativamente come personale amministrativo.
Con l’istituzione dell’Ordine, a partire dalla Legge 56 del 18 febbraio 1989, gli psicologi
hanno avuto finalmente a disposizione gli strumenti per la promozione e la tutela della
professione.
Torniamo però alla descrizione dell’Ordine come Ente responsabile della gestione
dell’Albo professionale.
Si dice, in linguaggio giuridico, che l’Ordine professionale ha finalità pubblicistiche: in
quanto Ente pubblico, esso può e deve perseguire solo l’interesse pubblico e in nessun modo
può favorire interessi privati.
Queste finalità pubblicistiche sono volte a tutelare e garantire l’affidabilità dei
professionisti nelle attività rivolte al pubblico, e hanno diversa rilevanza a seconda delle
professioni. Vi sono professioni cui lo Stato delega in parte proprie funzioni, dando loro di
conseguenza un significato pubblico: su di esse lo Stato esercita un controllo più stretto, a
misura che il professionista, nell’esercizio della professione, agisce come “pubblico ufficiale”.
È il caso del notaio quando autentica un atto, o del medico quando fa una constatazione di
decesso; ma in tutte le professioni è presente un interesse pubblico più o meno accentuato.
Esso consiste in primo luogo nella tutela dei fruitori dell’intervento professionale, che
devono essere posti in condizione di orientarsi nella scelta del professionista di loro fiducia: è
dunque necessario che i professionisti nel loro insieme presentino un profilo medio di
competenza tale da garantire ai fruitori prestazioni affidabili tanto dal punto di vista tecnico
che da quello etico.
Le finalità dell’Ordine professionale attengono ovviamente anche all’interesse della
categoria, e riguardano il decoro, il prestigio, la moralità professionale e l’indipendenza del
professionista.

È per altro evidente che tali finalità, se giovano al professionista nel senso che egli ricava
dall’appartenenza all’Ordine un certo status sociale (connesso all’immagine della professione),
si saldano poi con l’interesse dell’utenza. Per fare solo l’esempio più trasparente, le norme
deontologiche della professione, che l’Ordine è tenuto a emanare e a far rispettare dagli
iscritti, tutelano insieme il professionista onesto dalla cattiva concorrenza del collega
maldestro o disonesto, e il cliente dalla disonestà o dalla scarsa attenzione del professionista
incompetente.
Le funzioni dell’Ordine professionale sono sintetizzabili come segue.
(a) Funzione di custodia dell’Albo
L’Albo non è altro che l’elenco dei professionisti autorizzati a esercitare una specifica
professione. Esistono in Italia taluni Albi privati, che corrispondono ad attività non ancora
riconosciute dalla Legge come aventi titolo a un proprio Ordine professionale: ne parleremo
più avanti. Teniamo intanto a mente che le attività intellettuali per il cui esercizio non è stato
superato un Esame di Stato, vengono talvolta — anche da Leggi imprecise nella terminologia
o mal costruite — denominate “professioni”: ma non lo sono, almeno nel senso previsto dalla
Costituzione all’art. 33, quinto comma, che appunto prevede senza equivoci il superamento di
un Esame di Stato per l’accesso ad attività che vengano legittimamente definite come
professioni..
Questi Albi senza valore pubblicistico sono compilati e custoditi da libere Associazioni fra
esercenti talune attività, e anche quando godono della stima generale, non hanno alcun valore
legale: in teoria chiunque può mettersi a fare l’optometrista o il sommelier o l’amministratore
di condominio senza dover chiedere alcuna autorizzazione. Non è lo stesso per chi vuole
esercitare l’avvocatura, l’architettura, la medicina o la psicologia.
Vi sono anche Albi con valore pubblicistico, cioè riconosciuti dallo Stato e depositati
presso suoi organismi, ma non auto-amministrati dalla corrispondente comunità professionale:
è il caso, per es. dei consulenti tecnici e dei periti di diverse categorie di attività presso i
Tribunali, o presso i Ministeri o presso Enti pubblici, quando il committente richiede ai
collaboratori esterni talune specificità di natura tecnica rispondenti a proprie esigenze
istituzionali.
Esistono Albi senza Ordine, dunque, ma non Ordini senza Albo. La “custodia” dell’Albo
da parte dell’Ordine comporta la sua compilazione, la conservazione, l’aggiornamento, la
pubblicazione e la comunicazione alle Autorità competenti. In tal modo qualsiasi privato
cittadino e qualsiasi Ente pubblico o privato, è posto in grado di verificare l’appartenenza
all’Ordine del professionista a cui intenda rivolgersi.
(b) Funzione disciplinare
Con la Legge istitutiva dell’Ordine, lo Stato delega a questo il potere disciplinare sui
professionisti. Con questa espressione si intende la titolarità a stabilire norme deontologiche,
cioè morali, di comportamento, e a giudicare e sanzionare le violazioni relative da parte del professionista.

La funzione disciplinare adempie al duplice scopo di mantenere un adeguato
standard di correttezza nell’esercizio professionale (specialmente nell’interesse dei fruitori) e
il decoro della categoria (specialmente nell’interesse degli associati). L’azione disciplinare per
violazione delle norme deontologiche è promossa dallo stesso Ordine, ma può venire
“eccitata” anche dall’autorità giudiziaria o amministrativa. Per es., quando un professionista
iscritto a un Albo viene sottoposto a procedimento penale, la Procura della Repubblica (cioè
l’Autorità preposta all’indagine) avverte l’Ordine professionale perché a sua volta si attivi per
l’accertamento dei fatti contestati al professionista.
Tale azione, anche se si svolge tutta all’interno delle strutture dell’Ordine, assomiglia a un
vero e proprio procedimento penale a carico del professionista: in essa devono quindi essere
presenti gli elementi basilari del procedimento penale, e cioè
— l’imputabilità (1’incolpato deve essere considerato responsabile di un atto volontario,
non eseguito quindi in stato di incoscienza o di necessità),
— la contestazione delle colpe (l’incolpato deve essere informato di cosa lo si accusa),
— la salvaguardia del diritto di difesa (l’incolpato deve essere messo in grado di
discolparsi),
— la proporzionalità dell’eventuale sanzione con l’infrazione commessa e accertata.
Nel nostro ordinamento le norme deontologiche degli Ordini professionali non hanno lo
stesso valore delle norme oggettive del diritto (i Codici Civile, Penale etc.), ma sono
egualmente cogenti per tutti gli iscritti all’Albo e all’Ordine. I princìpi generali a cui si
ispirano sono quelli della correttezza e della serietà, della preminenza dell’interesse morale su
quello materiale, della lealtà e della solidarietà professionale.
Il professionista psicologo che, all’èsito di un procedimento disciplinare, venga confermato
nell’imputazione di aver violato una norma del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, è
passibile di quattro tipi di sanzione (art. 26 della Legge professionale):
— l’avvertimento,
— la censura,
— la sospensione temporanea dall’Albo (con la conseguente impossibilità di esercitare la
professione per un certo tempo, non superiore a un anno),
— la radiazione dall’Albo (che esclude definitivamente dall’esercizio della professione).
Nella scelta di tali sanzioni in proporzione alla colpa accertata del professionista si esercita,
come dicevamo più sopra, l’ampia discrezionalità degli organi disciplinari dell’Ordine nei
confronti dei trasgressori.
(c) Funzione collaborativa e consultiva
Poiché gli Ordini professionali sono organi qualificati sul piano tecnico, essi possono
essere chiamati a dare pareri su provvedimenti che la Pubblica Amministrazione debba
emanare in materie che attengono alla professione.

Anche se la Pubblica Amministrazione non è obbligata a farlo, sarebbe altamente
raccomandabile e conforme all’uso che consulti anche 1’Ordine degli Psicologi quando si trovi
di fronte al compito di ristrutturare propri settori in cui gli psicologi sono coinvolti (Sanità,
Scuola, Giustizia etc.), rinnovare i contratti relativi, lanciare campagne di sensibilizzazione
dell’opinione pubblica etc.
Questo è un punto assai delicato del problema: alcune Amministrazioni pubbliche hanno
nel tempo instaurato un fattivo rapporto di collaborazione con gli Ordini territoriali e con il
Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi; altre stentano a muoversi in questo senso, o
fanno resistenza. Spesso, in ciò, come in Italia non è purtroppo infrequente, è facile ravvisare
la presenza attiva di altri interessi politici, economici, culturali.
Spetta quindi agli Ordini impegnarsi in modo da estendere e consolidare quanto più
possibile la prassi della funzione collaborativa e consultiva con le altre Amministrazioni
pubbliche.
(d) Funzione conciliativa e arbitrale
Queste funzioni attengono alle controversie fra professionisti e fra professionisti e loro
clienti.
L’Ordine professionale può svolgere, se richiesto, un ruolo di conciliatore-mediatore o di
arbitro, ricercando nel primo caso soluzioni che soddisfino entrambi i contendenti, ovvero, nel
secondo caso, decisamente assumendo per valide le ragioni dell’uno, e non valide quelle
dell’altro. Ciò, naturalmente, in alternativa al ricorso alla Magistratura, ma non
obbligatoriamente in sostituzione di tale ricorso.
(e) Funzione certificatrice
L’Ordine, in quanto custode dell’Albo, è tenuto a fornire certificazione dell’appartenenza
del professionista all’Albo stesso, e quindi della sua facoltà di esercitare la professione.
(f) Funzione di rappresentanza e di designazione
L’Ordine è tenuto a nominare, laddove la Legge lo richiede, un iscritto all’Albo quale
rappresentante della categoria presso Commissioni, Uffici pubblici, autorità amministrative
etc., in occasione di adempimenti previsti dalle norme che regolamentano tali istituti.
(g) Funzione di auto-amministrazione
L’Ordine amministra i beni di sua pertinenza e riscuote le quote annue di iscrizione, che
costituiscono la principale fonte di entrate.

 

L’art. 1 della Legge 56/89 e la definizione giuridica delle competenze dello psicologo
La Legge istitutiva dell’ordinamento della professione di psicologo, si apre con una
particolareggiata descrizione delle competenze che ne formano oggetto (art. 1):

La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la
diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in àmbito psicologico rivolte alla persona, al
gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e
didattica in tale àmbito.
L’elemento fondamentale da cogliere in questa descrizione è che la professione di
psicologo è definita sottolineando non tanto gli obiettivi, quanto gli strumenti utilizzati, sia sul
versante della conoscenza che su quello dell’operatività.
Ciò che caratterizza una professione e la distingue da professioni affini non sono tanto gli
scopi, quanto i mezzi impiegati per conseguire tali scopi: e giustamente la Legge 56/89 pone
l’accento sull’àmbito psicologico entro il quale situare le attività di prevenzione, diagnosi,
abilitazione-riabilitazione e sostegno.
Qui di seguito tenteremo di riassumere in termini generali la caratterizzazione che
all’àmbito psicologico è stata data nelle sedi in cui, venticinque anni fa, nella fase istituente
dell’ordinamento professionale, si è iniziato a dare concreta applicazione alla Legge 56/89,
vale a dire i Tribunali di ogni capoluogo di Regione e il Ministero di Grazia e Giustizia:
naturalmente, con la consulenza degli psicologi stessi.
(a) Prevenzione
Ecco qui, prima proposizione del primo articolo della Legge professionale, il primo
problema. Non sembra esservi, nel linguaggio tecnico della psicologia, un uso del termine
“prevenzione” che si discosti in modo rilevante da quello in uso nel linguaggio comune.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), già nel progetto “Salute per tutti entro il
2000” dette a suo tempo grande spazio alla psicologia, a partire dalla considerazione che il
50% dei decessi prematuri nei Paesi industrializzati è dovuto più o meno direttamente a
comportamenti inadeguati (fumo; cattiva alimentazione; guida pericolosa dell’auto;
distrazione nel maneggiare apparecchiature pericolose; abuso di alcol e altre sostanze etc.):
che possono dunque essere modificati solo con interventi psicologici di ampio respiro. La
prevenzione in àmbito psicologico si esercita dunque sia attraverso programmi e interventi
mirati, nei luoghi di lavoro, di studio, di cura ovvero entro presìdi sanitari pensati su misura
per l’obiettivo (uno di questi dovrebbe essere, per es., il Consultorio); sia attraverso campagne
condotte con i mezzi di informazione, da quelli a raggio più ristretto (territoriale), ai mass
media. La prevenzione in àmbito psicologico può avere come soggetti destinatari istituzionali
il quartiere, il sistema scolastico, l’azienda, fino al complesso degli utenti dell’informazione
su carta stampata e via etere; come temi, potenzialmente, tutte le problematiche della salute in
qualche modo connesse con i comportamenti individuali e collettivi.
Anche lo studio di modelli congrui di comportamento individuale e collettivo in caso di
emergenze ambientali (inquinamento, rischi ecologici su vasta scala etc.) e la loro promozione
nella popolazione potenzialmente coinvolta, può essere fatto rientrare nelle attività di
prevenzione. Si pensi all’importanza che può avere lo psicologo nella Protezione Civile, con
la funzione di studiare e prevedere i flussi di comunicazione tra le équipe di soccorso e la popolazione colpita,

di predisporre programmi di addestramento delle popolazioni a rischio
all’auto-controllo delle reazioni di panico in caso di incidenti, e intervenire in soccorso
quando questi si verificano, di fornire un contributo decisivo alla formazione degli operatori
esposti a condizioni estreme di stress etc. O all’importanza dell’intervento psicologico nella
prevenzione delle patologie legate a stili di vita malsani, per es. nel campo dell’alimentazione,
dei consumi di sostanze nocive anche se legali etc.
Su questi e altri fronti è molto attivo l’Ordine degli Psicologi del Lazio, con numerosi
Gruppi di Lavoro le cui attività possono essere conosciute dai colleghi e dal pubblico
attraverso una frequentazione del sito dell’Ordine stesso: www.ordinepsicologilazio.it.
(b) Diagnosi
Termine eminentemente medico, sul quale si era addensata, negli anni antecedenti la Legge
56/89, una fitta polemica tra la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e
Odontoiatri (FNOMCeO) e le Associazioni scientifiche e professionali degli psicologi, la
diagnosi psicologica è oggetto di una vasta letteratura, che concerne soprattutto i metodi.
La diagnosi psicologica non è diagnosi differenziale di un disturbo della sfera psichica, che
possa sostituirsi a quella medica. Qualsiasi psicologo sensato, di fronte a un soggetto che
lamenti cefalea, sintomi riconducibili a un’area neuropsicologica o neurovegetativa, difficoltà
di locomozione, alterazioni della percezione sensoriale e simili, dispone immediatamente un
controllo medico.
E tanto basterebbe per riaffermare, anche a questo proposito, che è impossibile affrontare
l’àmbito clinico in psicologia se — prima ancora di affrontare la psicopatologia, le tecniche
psicodiagnostiche e una o più tecniche psicoterapiche —, non si padroneggiano bene le basi
della psicologia generale, dalla psicofisiologia alla psicologia della percezione, dei processi
cognitivi nel loro funzionamento standard etc.
La diagnosi psicologica ha per altro una sua specificità, e non può essere compiuta dal
medico. Tale specificità, oltre che nei metodi, si riscontra negli obiettivi stessi, che attengono
la elucidazione di aspetti della personalità non immediatamente ostensibili, le emozioni, le
motivazioni, lo stile di vita.
La diagnosi nelle organizzazioni e nelle comunità, a maggior ragione, non è in alcun modo
assimilabile alla diagnosi “clinica” come sopra delineata, e può invece riguardare gli
orientamenti di condotta, la cultura e gli atteggiamenti collettivi, le dinamiche istituzionali, gli
stili di leadership e di dominanza, i flussi comunicativi e più in generale i rapporti interindividuali,
fra individui e gruppi e inter-gruppali.
(c) Abilitazione-riabilitazione
Dal punto di vista dell’oggetto, tali attività si configurano come interventi sul
comportamento umano finalizzati al potenziamento delle diverse capacità (abilities) legate ai
processi cognitivi e alla vita emozionale, sia che esse si trovino in uno stato di equilibrio
“normale” (cioè standard: “normale” in senso statistico — la curva di Gauss, dunque, e non uno “stato” —, non sussistendo

in psicologia un senso normativo di questa espressione), sia
che se ne assuma una condizione di alterazione.
Il modello medico, che tuttora è implicito in questa terminologia, appare troppo limitativo
per rappresentare correttamente la complessità dell’intervento psicologico abilitativoriabilitativo.
In medicina la “normalità” coincide con la fisiologia di un organo: la patologia viene intesa
come stato di alterazione della funzionalità dell’organo, per difetto o per eccesso. L’obiettivo
teorico (o illusorio!) della medicina è la restituzione del soggetto, nei limiti del possibile, allo
stato fisiologico, di cui è codificato un campo di variabilità “normale”.
L’abilitazione-riabilitazione, in senso psicologico, deve essere intesa piuttosto come un
processo nel quale il soggetto viene aiutato a sviluppare le proprie potenzialità cognitive ed
emozionali ai livelli ottimali consentiti dalle sue condizioni di base.
Il portatore di un handicap psichico grave, come ad es. nella Sindrome Down, non è
considerato “deficitario” in confronto a un modello astratto di normalità: il suo svantaggio
rispetto a un soggetto privo di tale specifica disabilità è evidente. La psicologia studia la
specifica modalità di espressione delle abilità cognitive e delle competenze emotive e sociali
nel soggetto Down, e l’intervento abilitativo-riabilitativo è finalizzato a consentire a questo
soggetto il massimo vantaggio compatibile con quelle modalità. Grazie all’intervento
psicologico, da una trentina d’anni a questa parte i soggetti Down sono sempre meno
considerati dei “minorati”: la conoscenza di talune specificità dei loro processi di pensiero e la
messa a punto di metodiche abilitative-riabilitative ad hoc ha permesso di ottenere con
soggetti Down sorprendenti e un tempo impensabili risultati di sviluppo delle capacità
individuali e di inserimento sociale.
Un altro esempio può essere quello della funzione della psicologia nella cura di soggetti
colpiti da incidenti vascolari cerebrali. La neuro-riabilitazione, di cui si occupano
elettivamente il neurologo e/o il neurochirurgo, riguarda, dopo l’inevitabile intervento
operatorio, la protezione da fenomeni infiammatori, la prevenzione di ulteriori incidenti
attraverso il controllo farmacologico e dietologico della pressione arteriosa, il recupero della
normale irrorazione del tessuto cerebrale e della neurotrasmissione e neuromodulazione etc.;
il fisioterapista si occuperà della ripresa, fin dove possibile, della normale funzionalità
dell’apparato muscolo-scheletrico; il terapista occupazionale rieducherà il soggetto alla
percezione e alla motilità fine; il logoterapista all’uso corretto dell’apparato fonatorio e alla
riacquisizione dei modelli espressivi del linguaggio. Lo psicologo interverrà invece sui pattern
cognitivi che presiedono al comportamento, e che riguardano la memoria, l’attenzione,
l’orientamento spazio-temporale, la propriocezione e lo schema corporeo etc.
Contestualmente, svolgerà l’utilissima funzione di sostegno psicologico di cui necessita un
soggetto a cui è richiesto uno straordinario sforzo di compliance.
(d) Sostegno
In ogni attività abilitativa-riabilitativa, fondamentale è infatti la funzione di sostegno:
espressione con cui si intende l’insieme degli interventi volti da un lato a evitare che il

soggetto, a causa di effetti ansioso-depressivi, perda i vantaggi che viene acquisendo; da un
altro lato, a permettere che l’attività abilitativa-riabilitativa stessa sia supportata da un
adeguato senso di fiducia nel risultato.
È dimostrato sperimentalmente, ad es., che i soggetti con umore disforico hanno risultati
più scarsi in compiti di memorizzazione che non i soggetti con umore stabile; così come è
noto anche nell’esperienza comune che elevati livelli di ansia possono ridurre sensibilmente i
risultati di una prestazione di qualsiasi genere. L’attività c.d. di sostegno, particolarmente
indicata a prevenire e contenere tali effetti indesiderabili, è basata in larga misura su una
capacità dello psicologo di surrogare pro-tempore, mentre l’attività abilitativa-riabilitativa è in
corso, le abilità carenti nel soggetto, trasmettendogli con la parola e con l’esempio (modeling)
il proprio senso di sicurezza nell’efficacia del trattamento, mostrandogli soluzioni realistiche
— se ve ne sono — a problemi vissuti come irrisolvibili etc.
Si può infine osservare che tali attività, se si intendono rivolte a gruppi e comunità,
possono riguardare i processi di interazione tra soggetti: si può praticare un intervento
abilitativo-riabilitativo e di sostegno all’interno di una famiglia, o di un collettivo
professionale, se ad es. sono in crisi talune funzioni inter-individuali quali la comunicazione,
la capacità di definire e perseguire obiettivi comuni etc.
(e) Sperimentazione, ricerca e didattica
Va infine rilevato come la citazione, fra le competenze che formano oggetto della
professione di psicologo, delle «attività di sperimentazione, ricerca e didattica», vada nella
direzione di riaffermare l’immagine, da sempre cara ai colleghi americani, dello scientistpractictioner,
cioè il professionista-ricercatore. Nella psicologia ancor più che in altri campi
della conoscenza e delle attività professionali, è del tutto anti-storico e illogico separare la
dimensione dell’intervento tecnico da quella dell’apprendimento e della trasmissione dei
metodi e delle tematiche. Lo psicologo professionale non può letteralmente operare a livelli di
competenza accettabili se non è in grado di validare con metodi di indagine empirica
l’andamento e i risultati del proprio lavoro; e allo stesso modo lo psicologo che si dedica
prevalentemente alla ricerca e all’insegnamento non esprime una competenza soddisfacente se
non è in grado di formulare e praticare, sulla base dei progressi della conoscenza scientifica
per i quali ha una più diretta responsabilità e un più diretto accesso alle fonti, sempre nuovi e
aggiornati programmi formativi per futuri professionisti.
Nell’articolo l della Legge 56/89 non compare, fra le competenze che formano oggetto
della professione di psicologo, la più diffusa e — almeno un tempo — ambìta: la psicoterapia.
Se da una parte è possibile in ogni caso considerare la psicoterapia come un’attività orientata
a un obiettivo di abilitazione-riabilitazione, e quindi riconducibile a questi due insiemi più
comprensivi che l’art. 1 cita espressamente, vi sono poi, d’altra parte, alcune specifiche
condizioni legali per l’esercizio della psicoterapia da parte degli psicologi (e, non lo si
dimentichi, anche dei medici solo se abbiano conseguito, al apri degli psicologi, le necessarie
specializzazioni): condizioni che sono poste nel successivo art. 3 della Legge.

 

Criticità e problemi aperti
Abbiamo posto fin qui i termini fondamentali del problema: vediamo ora più
specificamente quali criticità ne conseguano per la professione, al suo stadio attuale di
sviluppo nel nostro Paese.
Fino a oggi gli psicologi non hanno studiato all’Università — se non marginalmente — le
norme fondamentali che regolano l’esercizio della professione, ciò che invece è sempre
accaduto (ed è considerato ovvio) per tutte le lauree a scarso contenuto giuridico ma orientate
allo svolgimento di incarichi che comporteranno, nell’esercizio della professione,
l’assunzione di responsabilità personali verso i clienti e i committenti e verso la società nel
suo insieme: impensabile che un medico non conosca le norme di Legge che regolano la sua
condotta verso il paziente e verso l’Amministrazione pubblica della sanità; impensabile che
un architetto non sappia quali limiti alla sua attività pongano i piani regolatori urbanistici, i
vincoli paesaggistici, l’impatto ambientale.
A fronte di questa lacuna “storica” della loro formazione di base, spesso gli psicologi
hanno invece impegni professionali che richiederebbero — tanto nella pratica privata quanto
in quella presso strutture pubbliche — una conoscenza della Legge adeguata ad assumere in
modo consapevole e congruente decisioni rilevanti sotto più profili di diritto civile e penale: si
pensi alla complessità e alla delicatezza del loro intervento in tutti i casi in cui sono implicati
soggetti minori o inabili o comunque socialmente fragili, o potenzialmente pericolosi, o per i
quali sono necessarie specifiche accortezze a salvaguardia della salute, della vita stessa, o di
relazioni familiari, di lavoro, di colleganza etc.
L’incrocio tra dimensione della riflessione etica generale (A), del sistema giuridico
nazionale (B) che fa da cornice complessiva di ogni agire sociale, e dell’operatività
psicologica (C) e può essere sintetizzato come nello schema qui sotto riportato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I tre insiemi maggiori A, B, C rappresentano, appunto, le dimensioni sopra indicate, che
sono, con tutta evidenza, largamente indipendenti una dall’altra: esse però, là dove si
incontrano e si sovrappongono, danno luogo ai tre sotto-insiemi AB, BC, AC che
rappresentano rispettivamente:
— AB il campo della deontologia, in cui la riflessione etica si coniuga con il diritto, dando
luogo a un impianto normativo specifico interno alla professione;
— BC il campo delle norme che regolano l’esercizio delle professioni, e più
specificamente nel nostro caso quella di psicologo, a cominciare dalla Legge 56/89;
— AC il campo di definizione dei princìpi etici propri di ogni diverso orientamento
teorico-tecnico della psicologia.
Il sotto-insieme centrale ABC rappresenta quindi lo spazio nel quale si colloca la personale
declinazione pratica dell’etica e della competenza di ogni singolo psicologo, nel rispetto delle
norme statuali e delle regole di funzionamento della comunità scientifico-professionale
organizzata. Solo qui può avere luogo la sintesi delle tre dimensioni, che non può sussistere né
come logica dell’adempimento alla norma deontologica, né come puro e semplice rispetto
delle Leggi vigenti, né solo come adesione — ancorché convinta e partecipata — ai princìpi
teorico-tecnici ed etici cui si ispira il proprio modello di riferimento.
Abbiamo così tracciato un esempio (per altro ricco di possibili collegamenti alla realtà dei
fatti e di grande attualità) di come un uso distorto di un principio di libertà costituzionale,
difficilmente perseguibile sotto il profilo penale, lo sarebbe invece — almeno in linea torica
— sotto quello deontologico-disciplinare.
Torniamo così al nostro schema iniziale: tenere una condotta professionalmente
ineccepibile è costitutivo della competenza psicologica, ma non è una questione di
prescrizioni e divieti, è invece altrettanto materia teorico-tecnica che etica e giuridica. Per fare
ancora un esempio consideriamo l’art. 28 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani:
Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività
professionale o comunque arrecare nocumento all’immagine sociale della professione.
[…]
Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto professionale, possa produrre per lui
indebiti vantaggi diretti o indiretti di carattere patrimoniale o non patrimoniale, a esclusione del compenso
pattuito.
Ora — tralasciando commenti stilistici sulla obsoleta scelta lessicale «nocumento» in luogo
del più semplice equivalente «danno» —, là dove il testo utilizza la già criticata espressione
«indebiti vantaggi», pone in capo alla discrezionalità amministrativa dell’Ordine — come già,
l’abbiamo visto, nell’art. 3 — l’individuazione di quali essi siano e quale sia il criterio per
contrapposti a quelli leciti (o solo “inoffensivi”?). Questa valutazione, invece, è di natura
squisitamente professionale: se io utilizzo le conoscenze, le opportunità, la posizione sociale,

lavorativa di un cliente/paziente per averne qualsiasi vantaggio, di qualsiasi natura,
nell’àmbito del modello psicoanalitico sto certamente commettendo un errore grave, mentre
in altri modelli l’errore sarebbe probabilmente più sfumato. Non è acquisibile una volta per
tutte né che io possa né che io non possa, in quanto psicologo, accettare un favore o un regalo
da un cliente/paziente che si ponga nella posizione di offrirmelo: occorrerà contestualizzare
l’offerta, comprenderne il senso entro la dinamica della relazione.
Si dirà che un regalo o un favore non va mai, certamente, sollecitato. Ci sono però
circostanze in cui sarebbe un errore rifiutare un regalo che abbia un modesto valore
economico ma un elevato valore simbolico. Di nuovo, in un modello psicoanalitico questa
regola di condotta potrebbe essere (e di fatto è) più rigida che in altri modelli entro i quali la
relazione professionale sia strutturata diversamente: ma il principio ha comunque un valore di
carattere generale, e costituisce una altro esempio di come una condotta penalmente poco o
nulla rilevante possa essere invece rilevante sotto il profilo deontologico-disciplinare.

 

Condotta privata, immagine del professionista e tutela dell’immagine della professione:
una nota sull’efficacia dei codici deontologici
Alcuni casi in cui non solo etica e deontologia non sono sovrapponibili — e appaiono per
certi versi incommensurabili —, e per altro il diritto presenta profili di incongruenza di
difficile trattazione e di difficile risoluzione sul piano pratico, discendono dalla normativa
vecchia e nuova relativa all’incrocio fra condotta privata, immagine pubblica del
professionista e tutela dell’immagine sociale della professione. Codice Deontologico degli
Psicologi Italiani, art. 38:
Nell’esercizio della propria attività professionale e nelle circostanze in cui rappresenta pubblicamente la
professione a qualsiasi titolo, lo psicologo è tenuto a uniformare la propria condotta ai princìpi del decoro e della
dignità professionale.
Venti, trenta anni addietro per es., era considerato quasi scandaloso che un professionista
iscritto a un Ordine volesse farsi pubblicità: il decoro, la gelosa protezione dell’immagine
sociale della professione passava anche per un certo understatement che escludeva
l’esibizione di esplicite intenzioni commerciali. Medici, notai, architetti sono stati tutti educati
a questa mentalità fino a pochissimo tempo fa. Il termine stesso di “onorario” quale sinonimo
di compenso professionale, troviamo scritto nel Dizionario della lingua italiana del Battaglia,
«rispecchia l’originaria concezione degli antichi romani secondo cui le somme e altri beni
corrisposti ai giuristi, ai medici e a consimili professionisti rappresentavano non già la
retribuzione per il loro lavoro, cosa che sarebbe stata incompatibile con il loro stato sociale e
con la dominante concezione del lavoro come opera servile, bensì un onorifico donativo fatto
a titolo di attestazione di stima e di riconoscenza per il beneficio ricevuto; e, benché
attualmente il compenso spettante ai liberi professionisti sia regolato dalla Legge come un
vero e proprio diritto alla retribuzione spettante ai medesimi come lavoratori intellettuali

autonomi, tuttavia certi aspetti dell’antica concezione persistono ancora a livello del costume
sociale, onde, nell’uso linguistico, l’onorario del libero professionista si contrappone al
salario e allo stipendio spettanti ai lavoratori dipendenti e alla retribuzione spettante agli altri
lavoratori autonomi».
La professione di psicologo, invece, risentiva assai meno di questa impostazione “classica”
per almeno due motivi di carattere generale:
— sul piano nazionale, perché il riconoscimento connesso con l’istituzione del suo
ordinamento giuridico è recente, e non vi era un modello pregresso con cui dovesse
confrontarsi;
— sul piano internazionale, perché la psicologia come professione conosce il suo più
ampio e accelerato sviluppo a partire dagli USA negli anni ‘60 del secolo XX, in
concomitanza con i grandi movimenti di civil rights, cioè di promozione e di difesa dei diritti
del cittadino: contro le discriminazioni sociali e razziali, per la protezione dell’ambiente, per
la tutela dei consumatori.
Quest’ultimo movimento, in particolare, aveva determinato nel corso degli anni alcuni
importanti cambiamenti culturali, così nella mentalità corrente come nel diritto e nel dibattito
etico in seno all’imprenditoria e alle professioni. Sempre più le istituzioni e le organizzazioni
si adoperano da allora in tutti i Paesi occidentali nel mettere a disposizione del pubblico
conoscenze e orientamenti che riguardano appunto i servizi offerti: nello spirito di
responsabilizzare i professionisti — in capo ai quali, come è storicamente e giuridicamente
scontato, va un’obbligazione di mezzi e non di risultati — ad avere un atteggiamento client
oriented nella trasmissione dell’informazione ai destinatari della prestazione professionale,
allo stesso modo dei produttori di beni e dei commercianti nei confronti dei consumatori.
Nascevano da questo retroterra le tematiche del consenso informato – tipica delle attività
sanitarie e affini – e quella della lotta alla pubblicità ingannevole.
Per gli psicologi esiste a riguardo anche un problema che non può essere trascurato: anche
quanti non si occupano in modo preminente e/o continuativo dell’àmbito clinico sono
comunque parte di una comunità professionale che lo Stato registra come “sanitaria”, e sono
comunque autorizzati a tutte le attività riportate nell’art. 1 della Legge 56/89: diagnosi,
abilitazione e riabilitazione, sostegno. Sarebbe curioso che questi professionisti fornissero
un’immagine di sé (e indirettamente, quindi, della professione) molto diversa a seconda del
contesto nel quale si iscrivono le prestazioni: per esempio, un’immagine contenuta e rigorosa
quando pubblicizzano la propria attività in àmbito clinico, e un’immagine informale e
“disinvolta” quando si rivolgono per es. al mondo dello sport, alle famiglie o alle aziende. Un
“giro turistico” attraverso i siti internet e i profili social di alcuni nostri colleghi può
esemplificare in modo concreto queste considerazioni; ed è meglio tacere, per brevità ma
anche per un intimo sentimento di imbarazzo, del modo in cui a volte gli psicologi
intervengono in televisione come consulenti nel backstage di trasmissioni-verità e peggio
ancora come ospiti di talk-show e spettacoli di varietà…

Sorge o si ripropone qui il problema dell’efficacia di una strumentazione che non è più
legislativa ma para-legislativa, come sono appunto i codici deontologici. Sono in grado questi
strumenti di garantire al tempo stesso il rispetto delle normative, ma anche il rispetto di alcuni
princìpi etici fondamentali della professione?
Il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani è un ibrido che richiederebbe una profonda
riformulazione. In molti articoli esso ricalca in modo evidente il testo corrispondente
dell’American Psychological Association (https://www.apa.org/ethics/code/), ma tale
ispirazione è almeno in parte impropria. La carta deli psicologi americani non è un “codice”
nel senso romano-bizantino-napoleonico proprio della nostra tradizione giuridica, proprio in
quanto afferisce a una istituzione privata e non a un Ente pubblico. Questo approccio, congruo
al modo di funzionare delle professioni nei Paesi di common law — caratterizzati appunto da
una legislazione “leggera” e da un criterio di fondo di massima responsabilizzazione dei
professionisti —, consente agli psicologi americani di muoversi per un verso liberamente
prendendosi la piena responsabilità individuale di quello che fanno, e per un altro ponendosi
consapevolmente di fronte al rischio di essere sanzionati dalla loro stessa comunità
professionale nel momento in cui sbaglino nella pratica contestuale di tale responsabilità.
Hanno dunque, rispetto a noi, una maggiore autonomia, vincoli meno rigidi, ma anche una
maggiore esposizione.
Vediamo ora cosa accade se cerchiamo di tenere presenti questi livelli problematici nel
momento in cui ci domandiamo quali sono vincoli e opzioni rispetto a un altro aspetto della
questione, il marketing della professione di psicologo.
La difesa dei consumatori dalle distorsioni dell’informazione diffusa per scopi commerciali
è una materia relativamente recente nel diritto italiano. La normativa, al cui centro si trova il
Decreto Legislativo 74/92, prevede che la pubblicità sia «palese, veritiera e corretta» (art. 1,
comma 2): si intende invece per pubblicità ingannevole «qualsiasi pubblicità che in qualunque
modo, compresa la sua presentazione, possa indurre in errore» i destinatari, e che a causa del
suo carattere ingannevole possa condizionarli a loro svantaggio o «pregiudicare il loro
comportamento economico»; ovvero che «per questo motivo possa ledere un concorrente»
(art. 2, comma 2b).
L’attenzione, si noti, è spostata sulla pubblicità in sé e non sul possibile danno che la
pubblicità farebbe se l’acquirente fosse tratto in inganno. Come dire, la pubblicità non deve
essere ingannevole a prescindere dal fatto che possa produrre effettivamente un danno
concreto.
A riguardo, il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani impegna in più punti e
costantemente i professionisti:
— ad agire in modo da evitare l’uso non appropriato della loro influenza;
— riconoscere i limiti della loro competenza;
— fornire la fonte delle loro informazioni tecniche;

e così via fino all’art. 40.
Indipendentemente dai limiti posti dalla vigente legislazione in materia di pubblicità —
limiti che si sono notevolmente ampliati proprio nelle innovazioni normative più recenti —, lo
psicologo non assume pubblicamente comportamenti meno che dignitosi finalizzati al
procacciamento della clientela; in ogni caso, la pubblicità e l’informazione concernenti
l’attività professionale devono essere ispirati a criteri di decoro professionale, di serietà
scientifica e di tutela dell’immagine della professione.
Quest’ultima tematica è particolarmente delicata nell’universo dei media, come
accennavamo in precedenza, perché il decoro e la tutela dell’immagine della professione sono
un concetto sfumato, soggettivo, che ricorda il famigerato “comune senso del pudore”. In
nome del quale, qualche decennio fa, la polizia fermava le signore che si presentavano in
topless sulla spiaggia, la censura amputava film d’autore che sfioravano argomenti sessuali, i
ragazzi venivano multati se si baciavano in pubblico… Potrebbe uno psicologo, in base alla
nozione di “decoro della professione”, mettere nel proprio sito internet una foto che lo ritrae
per es. a un cocktail party, o a cavallo, o al pianoforte, o comunque in una posa innocente ma
non esattamente professionale, magari sfacciatamente esibizionistica? Difficile esercitare
questa specifica forma di vigilanza sotto il profilo disciplinare; impossibile regolarla
attraverso norme. Solo una diffusa consapevolezza e una rigorosa capacità di autoregolazione
da parte dei professionisti potrebbe produrre, nell’insieme, il risultato di un’immagine
pubblica della professione caratterizzata da sobrietà, affidabilità, eticità.
C’è un’altra Legge – emanata molti anni fa e quindi evocante orientamenti e valori etici
distanti dai nostri – alla quale occorre riferirsi con analoga attitudine insieme rispettosa e
critica: è la legge 897 del 25 aprile del 1938, che recita all’art. 2:
Coloro che non siano di specchiata condotta morale non possono essere iscritti negli Albi professionali e se
iscritti debbono esserne cancellati, osservate per la cancellazione le norme stabilite per i procedimenti
disciplinari.
Legge poco nota, e ancor meno applicata nella storia della Repubblica, ma pur sempre in
vigore… Cosa e chi definisce una “specchiata condotta morale”? All’epoca della formazione
del primo Albo professionale ex art. 32 della Legge 56/89, il Magistrato responsabile del
procedimento attuativo nel Lazio non ritenne di dover escludere taluni soggetti che, se pure
provvisti dei titoli formali previsti, avevano alle spalle condanne passate in giudicato per reati
contro la persona e/o contro il patrimonio. Uno psicologo che sia un truffatore abituale, se
pure non abbia mai danneggiato direttamente clienti o pazienti, può restare iscritto all’Albo ed
esercitare la professione? Si deve invocare la Legge 897/38 contro uno psicologo che picchia
la moglie? Gli psicologi, che — lo ripetiamo — lavorano non solo entro relazioni come tutti
gli altri professionisti, ma mediante relazioni, dovrebbero essere particolarmente attenti alla
propria competenza e correttezza interpersonale in senso lato: esse sono difatti il fondamento
o la premessa necessaria della competenza e della correttezza nelle relazioni professionali.

Come si vede, le questioni aperte sono numerose e complesse: non le abbiamo certamente
enumerate tutte. Ma tutte, per essere correttamente affrontate, richiedono da parte del
professionista senso critico, capacità riflessiva, indipendenza di giudizio, buona informazione
basata su dati certi.