Due persone ricoverate in un reparto di Oncologia

Quando si parla di persone malattie oncologiche vengono in mente sofferenza, rinunce, problemi che portano a riorganizzare la vita in maniera radicale. Uno dei problemi più rilevanti è spesso sottovalutato: chi ha a che fare con il malato oncologico sembra sapere a priori di cosa abbia bisogno. Proponiamo due situazioni cliniche che abbiamo immaginato prendendo spunto da esperienze dirette.

La donna ansiosa e lamentosa

Siamo in un ospedale italiano, il personale sanitario del reparto di oncologia segnala allo psicologo la presenza di una donna ricoverata che sembra versare in un continuo e forte stato ansioso ma si mostra riluttante ad assumere farmaci sedativi.

Lo psicologo va quindi a far visita alla paziente nella stanza in cui è ricoverata.

La donna è molto spaventata dagli effetti del farmaco che le hanno somministrato due sere prima. Vede la presenza dello psicologo come un segnale del fatto che i medici non la prendano sul serio. La sua malattia le comporta problemi respiratori per cui deve inspirare l’aria con la bocca.

Il torpore e lo stordimento provocatole dal farmaco le hanno fatto temere di non essere in grado di inspirare volontariamente con la bocca in caso di crisi respiratoria, tanto che sotto l’effetto del farmaco ha temuto di morire soffocata. Inoltre racconta di aver avuto allucinazioni per la prima volta in vita sua (sempre da lei attribuite al farmaco) che l’hanno ulteriormente spaventata: un giocatore di cricket ed un uomo in abito elegante piuttosto minacciosi, ed un bel “canóne maróne” (un cagnone marrone) seduto accanto al letto e che aveva voglia di accarezzare. La donna tra le lacrime chiede allo psicologo di fare in modo che non le venga più somministrato quel farmaco.

Avvengono altri colloqui (programmati con la paziente) durante il periodo di ricovero. Medici e familiari hanno riferito poi di essersi sentiti meno pressati dalla paziente, la quale sembrava star meglio. Può sembrare assurdo, ma questa donna non chiedeva che si facesse qualcosa che avesse l’obiettivo manifesto di placare la sua ansia. Aveva bisogno di qualcuno a cui dire di star male, che fosse disposto a capirla, che rinunciasse alla pretesa di modificare la sua condotta.

 

La paziente ostile

Siamo sempre in un ospedale italiano, nel reparto di oncologia.

Parliamo di una donna di 60 anni che nonostante sembri molto sofferente su un piano psicologico, rifiuta la consulenza psicologica suggeritale dai medici. La paziente appare molto abbattuta, depressa e a tratti ostile. Parla pochissimo e, quando lo fa, si lamenta continuamente del servizio e rifiuta qualunque forma di supporto psicologico, persino quello dei familiari.

Lo psicologo si reca nella stanza della donna per capire meglio cosa succede, magari parlando con i famigliari. Nei pressi della stanza lo psicologo incontra il marito che si dice preoccupato per la chiusura della moglie che non accetta di essere sostenuta da un “esperto”. La paziente, che si trova a pochi metri, sente le parole del marito e grida seccata: “ho detto che non ci voglio parlare, basta!”.

Lo psicologo, rivolgendosi alla donna dice di essere d’accordo con lei: sembra che medici e famigliari nel consigliarle di parlare con uno psicologo esprimano un sentimento di compassione. Con questa premessa lo psicologo altro non è che una persona che commisera, un esperto che prova pietà per una persona spacciata. La paziente sembra sollevata da queste parole, dice di non voler essere trattata con pietà, che non può mica fare salti di gioia, che è normale essere un po’ sotto tono in quel contesto. Non ama condividere il bagno con altri pazienti, odia sentire lamenti… ha delle difficoltà ma non sopporta che tutti le vogliano stare addosso.

Aggiunge che avverte il marito come molto pesante, lei ha bisogno di avere intorno persone che le diano serenità, lui le mette ansia. Dopo qualche minuto la donna sembrava un fiume in piena, aveva molte cose da dire. Il problema è con quale premessa parlare.

A partire da quel giorno la donna ha incontrato lo psicologo per lungo tempo anche dopo il termine del ricovero. Anche in questo caso vediamo quanto sia centrale e ineludibile la possibilità di legittimare emozioni che non possono che essere scoperte nel rapporto.

Quando abbiamo a che fare con i malati oncologici possiamo essere ingannati dall’idea che essi abbiano problemi che parlano da sé, guidati dal sentimento che si prova nel pensare alla terribile situazione che stanno vivendo . Per queste due donne abbiamo visto come i problemi a prima vista fossero ansia e umore depresso. Guardando con più attenzione possiamo dire che gli unici elementi in grado di portare beneficio siano stati la possibilità di veder legittimate e riconosciute emozioni che sono solitamente mal tollerate sia in ospedale sia tra i famigliari (essere tristi, rinunciatari, ostili angosciati). Queste persone, trovando uno spazio per i propri vissuti, sono messe nelle condizioni di poter rinunciare al lamentarsi all’infinito, al proporre grane irrisolvibili.