Il segreto professionale in condizioni di rischio e l’autonomia dello psicologo
Dal «Caso Tarasoff», un problema etico-giuridico ancora aperto
Articolo scritto da Pietro Stampa
Quali sono i criteri di scelta attraverso cui un professionista può responsabilmente decidere se, quando, in quale contesto ed entro quali limiti venir meno alla fiducia del proprio cliente, rivelando ad estranei informazioni apprese (e proprie valutazioni maturate) all’ interno della relazione con lui? Il problema si pose con particolare forza nel campo della psicologia clinica all’ epoca del celebre «Caso Tarasoff», che sconvolse la comunità studentesca dell’ Università di Berkeley in California proprio all’epoca della grande contestazione del 1968-69. Si tratta di un caso etico prima ancora che giudiziario: benché, e proprio perché — come vedremo — vi fu un omicidio che si sarebbe potuto evitare solo che qualcuno si fosse preso la responsabilità di tradire le confidenze dell’ assassino, rese nel corso di un intervento clinico.
La storia, che ho già raccontato altrove (Stampa, 1990), e che per altro è molto ben conosciuta dai nostri colleghi americani, è la seguente.
Prosenjit Poddar era un giovane indiano, trasferitosi a Berkeley per studiare architettura navale. Si era rivolto al Servizio di Students Health Facility (il consultorio dell’ ospedale universitario) ed era stato inizialmente valutato da uno psichiatra; questi lo aveva inviato a uno psicologo con l’ indicazione di un trattamento psicoterapico. Sembra che i sintomi denunciati dal paziente consistessero, al momento della presa in carico, in uno stato di intensa sofferenza psichica provocato da idee ossessionanti di gelosia: e null’ altro. Lo psicologo, però, ben presto si era persuaso che Poddar fosse socialmente pericoloso: aveva infatti raccontato delle proprie fantasie erotico—persecutorie nei confronti di una studentessa, Tatiana Tarasoff, e della propria intenzione di acquistare un fucile per ucciderla.Sembra che fra Poddar e la Tarasoff non vi fosse alcun legame sentimentale: il giovane era invaghito della ragazza, le telefonava, la seguiva, trascorreva lunghe ore ad attenderla fuori dalle aule dell’università — e soprattutto si tormentava immaginandola in compagnia di altri uomini. Sembra che la Tarasoff cercasse di liberarsi della presenza molesta di Poddar, ma non sapesse bene cosa fare, e si limitasse a rivolgergli perentori inviti a togliersi di torno, che lui, ovviamente, ignorava. £ la cosa andava avanti così da un po’ di tempo. L’ipotesi avanzata da A.A. Stone (1984: p. 161), che si è approfonditamente occupato del Caso Tarasoff, è che Poddar soffrisse di un disturbo delirante paranoide a contenuto erotomaniaco e/o di gelosia (nella classificazione del DSM III), o di una Sindrome di Clearambault (nella classificazione francese delle psicosi deliranti croniche). Questa seconda scelta diagnostica, a mio avviso, consente — certo, col senno di poi — di meglio comprendere l’ evoluzione del comportamento di Poddar, da una fase di «speranza», a una fase di «dispetto», alla fase finale di «rancore». Così — scrivono Ey, Bernard e Brisset (1978 [1979: p. 533]) — l’ erotomania delirante si sviluppa in un sistema, per così dire, fatale e comporta, nella fase del rancore, reazioni aggressive nei confronti dell’ Oggetto, che raggiungono il «dramma passionale» della rottura e della vendetta. Vedremo tra un istante perché non vi sia agli atti del Caso Tarasoff una documentazione esauriente sulle valutazioni diagnostiche originali effettuate dal Servizio che lo ebbe in osservazione e, per un breve periodo, in cura psicoterapica. Sappiamo però che lo psicologo diagnosticò una reazione schizofrenico-paranoide acuta e grave. Era estate, e sia la vittima predestinata che il direttore del consultorio erano in vacanza. Lo psicologo si era consultato con i colleghi del Servizio, e aveva deciso di informare la polizia del campus, suggerendo che il paziente venisse affidato per ulteriori accertamenti a un Servizio psichiatrico di Stato, così come prevedeva all’epoca la Carta dei Diritti Civili della California. La polizia convocò Poddar, lo interrogò, e si convinse che non era affatto pericoloso come aveva sostenuto lo psicologo: dietro promessa di non molestare più la Tarasoff, Poddar venne lasciato libero.Di ritorno dalle vacanze, il direttore del Servizio di Students’ Health Facility parlò del paziente con lo psicologo e con i colleghi che erano informati della vicenda, e con la polizia. Si convinse a sua volta della non pericolosità di Poddar; in nome del segreto professionale, si fece rendere dalla polizia l’ esposto dello psicologo, e ordinò che venisse distrutto insieme a tutti gli altri documenti che avrebbero potuto nuocere alla privacy e al buon nome del paziente. Comprensibilmente, Poddar si guardò bene dal farsi nuovamente visitare dallo psicologo.Tatiana Tarasoff era ancora in Brasile per le vacanze. A Berkeley si trovava suo fratello, che conosceva Poddar ma non essendo stato avvertito di nulla, non ne sospettava la pericolosità. Erano trascorsi due mesi dalla convocazione di Poddar presso la polizia del campus. Tatiana Tarasoff era appena rientrata a Berkeley, quando una sera Poddar si appostò nei pressi della sua abitazione, e la uccise brutalmente prima sparandole con un fucile e poi finendola a coltellate. La famiglia Tarasoff intentò un procedimento di accusa contro le autorità accademiche, contro gli psichiatri e gli psicologi del Servizio di Students’ Health Facility e contro la polizia. In primo e in secondo grado questi imputati furono tutti assolti per non aver commesso alcun reato. La famiglia Tarasoff si rivolse allora alla Corte Suprema della California per un ulteriore intervento (paragonabile a un giudizio di Cassazione nel nostro ordinamento), sostenendo che quanto meno gli psicologi e gli psichiatri e la polizia avrebbero avuto il dovere di informare la vittima perché potesse prendere le sue precauzioni, e di disporre il ricovero cautelativo di Poddar. La Corte, nel 1974, si espresse con una formula di notevole interesse in merito alla questione centrale che qui ci interessa. «La particolare forma di rapporto che intercorre fra terapisti e paziente — recita la sentenza — avrebbe determinato per i terapisti il dovere di avvertire la vittima». Il comportamento della polizia venne censurato perché indusse Poddar a non cercare ulteriore aiuto terapeutico, creando così indirettamente un aumentato pericolo per la vittima. Non sussisteva invece, sulla base degli elementi di conoscenza che erano in mano sia del Servizio che della polizia, un obbligo di ricovero coatto del paziente. In un successivo pronunciamento, caldeggiato dalla polizia per evidenti motivi politici ed emesso nel 1976, la Corte articolò una distinzione ulteriore, sostanzialmente assolutoria e deresponsabilizzante per la polizia, così che il risultato finale — come segnala Stone (1984: p. 164) — è il paradosso secondo cui sono i terapisti e nessun altro ad avere l’ obbligo, «là dove inizia il pericolo pubblico», di porre «una ragionevole attenzione» al problema di proteggere una terza parte dall’ eventuale azione criminosa del paziente, avvertendo «a seconda delle circostanze» o la polizia, o la vittima potenziale, o la sua famiglia etc. Le questioni implicate nel «Caso Tarasoff», come si comprende, sono numerose, e fanno ancora discutere. Tali questioni non sono risolte né in America, né altrove. Non ho qui la possibilità, per ragioni spazio, di fornire una review esauriente: la più completa la si può comunque trovare in Kaufman (1991); la più aggiornata, ed estesa ad altri casi giudiziari connessi con lo stesso tema, in un recente intervento di Robert Goldstein (1993) sull’ American Journal of Psychiatry. Mi limiterò a quelli che a me sono sembrati gli interventi più significativi nel corso degli anni, quanto alle problematiche della privacy e del segreto professionale per gli psicologi clinici, gli psichiatri e gli psicoterapeuti. Gli avvocati Fleming e Maximov (1974) scrissero un commento al Caso Tarasoff mentre il processo era ancora in corso. Ispirandosi alle idee di Szasz — soprattutto quelle espresse in The Manufacture of Madness (1970) — sulla necessità di tutelare i pazienti da ogni intervento clinico o restrittivo da essi non richiesto, questi autori sottolineano come all’ obbligazione del terapista alla riservatezza, anche quando supponga pericoloso il paziente, corrisponde l’ interesse del paziente alla privacy e alla libertà, anche quando lo si ritenga pericoloso. Tali considerazioni mitigano, secondo gli autori, il dovere del clinico di avvertire terze persone sulla base di una propria convinzione che il paziente potrebbe essere pericoloso per loro: convinzione che potrebbe rivelarsi errata, dopo aver prodotto però un danno per il paziente. Il dovere che interessa a Fleming e Maximov di sottolineare non è tanto quello di proteggere la società dal paziente, ma di proteggere il paziente dal possibile arbitrio della professione psicologica e psichiatrica.
Tutti gli studi sul Caso Tarasoff, a partire da allora, mettono in evidenza due elementi fondamentali:
- il primo è che la relazione psicologico- clinica e psicoterapeutica deve potersi avvalere di un clima di completa fiducia e confidenzialità, che verrebbe meno qualora il paziente pensasse che la comunicazione di proprie idee aggressive verso terzi possa determinare lo scioglimento del vincolo del segreto per il professionista;
- il secondo è che la previsione del comportamento aggressivo è scarsamente obiettiva, e sicuramente, se applicata sistematicamente con intento protettivo verso terzi, darebbe luogo a una quantità di «falsi positivi» di nessuna utilità pubblica e a tutto danno dei pazienti.
I professionisti della salute mentale — scrive A. Felthous (1989: p. 10) — si trovarono di fronte a tre impellenti questioni. In cosa consiste esattamente il «dovere di proteggere»? Specificamente, in quali circostanze questo dovere si presenta, e quale azione è richiesta a psichiatri o psicoterapeuti? Secondo, quali professioni possono incorrere nel dovere in questione a causa di una «particolare forma di rapporto»? Terzo, fino a che punto il dovere di proteggere coinvolge anche terapisti operanti in Stati diversi dalla California? Nella decade post—Tarasoff la Corte Suprema della California amplificò il concetto di «dovere di proteggere», mentre le Corti di altri Stati americani si regolarono variamente. Lo studio di Felthous prosegue con una dettagliata esposizione della casistica post—Tarasoff in tutti gli USA, concludendola con un capitolo di Tarasoff’ curiosities, che meritano di essere prese in seria considerazione perché, rappresentando le applicazioni radicali e talvolta un po‘ assurde del principio warn I protect (avvertire/proteggere terze persone), mostrano un risvolto particolarmente inquietante dell’ intera problematica: la sua indecidibilità in condizioni di rischio non definite. Per esempio, se una donna uccide il marito, avendo precedentemente enunciato tale proposito in una seduta di psicoterapia, può lei stessa denunciare il proprio terapista per non avere avvertito la vittima? La Suprema Corte dell’ Iowa si trovò alle prese con questo rompicapo nel 1981, e lo risolse in favore del terapista. Detto in parole semplici, — scrive Felthous (1989: p. 49) — non si può commettere un crimine e in un secondo momento addossarne a qualcun altro gli effetti civili. Haas e Malouf (1989), nella loro guida alle questioni etiche connesse con la salute mentale, mettono in evidenza come il «dovere di avvertire» sia una formula più rigida e restrittiva che non il «dovere di proteggere» terze persone: la seconda offre infatti più chances al clinico (cfr. anche a riguardo Bersoff, 1976; Knapp e VandeCreek, 1982). A mio avviso, vorrei aggiungere, benché l’osservazione sia senz’ altro condivisibile, è vero anche che una formula più spostata sul versante del «dovere di proteggere» appare ulteriormente e forse eccessivamente responsabilizzante, con il richiedere non solo di mettere in pratica un comportamento concreto (per es. avvertire la vittima, o i suoi familiari, o la polizia), ma di scegliere tra un numero x di comportamenti «protettivi» possibili il più idoneo (o il meno dannoso). Questo ci riporta per altro a una ben più vasta problematica etico-professionale (quali criteri di scelta sono accettabili per una condotta etica della psicologia clinica?), che ho iniziato a trattare in altre sedi, alle quali rimando chi fosse interessato (Stampa, 1990, 1992a, 1992b, 1993a, 1993b, 1994). Il più diffuso manuale etico—giuridico per la professione di psicologo negli Stati Uniti, The Psychologist’s Legal Handbook (Stromberg et al., 1988), dedica pagine e pagine a trattare tutti gli scenari possibili in cui il «principio (o regola) Tarasoff» potrebbe presentarsi, disegnando i diversi tipi di condotta che potrebbero essere adottati. Con molto pragmatismo, il manuale suggerisce di aver cura anche e soprattutto della propria sicurezza, sia sotto il profilo legale che rispetto alla presunta o acclarata pericolosità del paziente. La conclusione di queste riflessioni merita di essere riportata per esteso (p. 544). Infine, si può rilevare che taluni crimini, ancorché non violenti e non soggetti alla «regola Tarasoff» sono nondimeno materialmente tanto gravi che difficilmente lo psicologo, qualora li riportasse all’ esterno, sarebbe davvero imputabile [di violazione del segreto professionale]. Per esempio, se un paziente dicesse al terapista di avere recentemente introdotto nel Paese un grosso quantitativo di eroina, e il terapista riferisse la cosa alle Autorità, è proprio difficile (se non impossibile) immaginare che sarebbe accusato. Oppure, ci sono circostanze nelle quali è doverosa la rivelazione di una confidenza relativa a un crimine del passato e di cui non si teme la ripetizione: per esempio, quando un innocente si trova in prigione accusato di quel crimine. Naturalmente, rischi e obbligazioni legali costituiscono solo un insieme di fattori che lo psicologo dovrà tenere in considerazione nel decidere se o meno rivelare una previa condotta criminale del cliente. Lo psicologo dovrà riflettere anche sulla base della propria etica personale, valutando quale sia il grado di pericolo sociale che la condotta del paziente comporta, e quale sia il grado di probabilità che il suo intervento terapeutico faccia diminuire il rischio di una condotta criminale successiva del paziente stesso, e se la violazione del segreto professionale indurrà il paziente a interrompere il trattamento con conseguente aumento del rischio per la società, e se in caso di violazione del segreto professionale per finalità di pubblico interesse il paziente non possa diventare pericoloso nei confronti dello psicologo e della sua famiglia. Stante l’attuale incertezza della Legge su questa materia, una conclusione sensata è che (1) non vi è alcun dovere generale di riferire crimini pregressi, in assenza di indicazioni che possano essere replicati […]; (2) se la rivelazione è effettuata per ragioni ovviamente buone, l’incriminazione dello psicologo è possibile, ma improbabile; (3) se uno psicologo sente che si profila una situazione in cui dovrà parlare di qualche condotta criminosa pregressa del paziente, farà bene a procurarsi un’ordinanza del giudice che lo obblighi in tal senso; (4) se lo psicologo prevede di dover violare il segreto professionale, farà bene a prevedere anche di dover fronteggiare la reazione del paziente. Come rilevano VandeCreek e Knapp (1989), non è accaduto se non in casi eccezionali che un terapista sia stato condannato per violazione del segreto professionale, avendo esercitato quella «ragionevole attenzione» alla tutela della vita e della incolumità di terze persone, minacciate dalla pericolosità di un paziente. La temuta intrusione della Legge nell’ autonomia professionale degli psicologi, in definitiva non ha avuto luogo — se non a misura che gli effetti del «Caso Tarasoff» si sono fatti sentire nella pratica professionale, determinando talvolta negli psicologi ansia, incertezza, conflitti etici un tempo ignorati, e inducendo in loro comportamenti cautelativi a cui non avrebbero altrimenti mai pensato (Wise, 1978). Secondo VandeCreek e Knapp (1989), i Tribunali americani hanno seguito, nel giudicare i casi po- st-Tdrasoff, alcuni criteri di priorità logica: effettiva visibilità del pericolo, identificabilità delle vittime potenziali, efficacia reale del terapista nell’ azione di protezione di queste ultime. In molti Stati americani sono stati introdotti regolamenti che consentono ai terapisti di sapere con più precisione in quali condizioni sono tenuti a considerare socialmente pericoloso un paziente e indicano loro come regolarsi per la tutela della pubblica incolumità; si deve ora sperare, concludono i due autori, che ciò non complichi ulteriormente il lavoro psicologico con pazienti gravi, e offra invece ai professionisti della salute mentale un’ opportunità in più per eseguire il loro lavoro secondo standard sempre più elevati e in modo socialmente sempre più responsabile Di certo, la questione è ancora aperta, e lo resterà a lungo: difficile immaginare che possa risolverla anche il più sofisticato dei codici deontologici, il più diabolicamente analitico dei regolamenti. Specialmente in Italia, dove di questi problemi si parla poco e male, e semmai per pochi giorni, sui quotidiani, quando accade qualche fatto di sangue. Un esempio per tutti: ricordate il clamore provocato tempo fa dalla scoperta d’ un omicidio nella Comunità per tossicodipendenti di San Patrignano? Vi fu un insulso dibattito fra «innocentisti» e «colpevolisti», nel quale intervennero scrittori, sacerdoti, gente di spettacolo e con scarsa partecipazione della nostra comunità professionale; poi, più nulla. Speriamo non occorra un «Caso Tarasoff» anche qui, per cominciare a prendere seriamente in considerazione la domanda: quando è lecito (o necessario) per lo psicologo venir meno alla consegna del silenzio, e scegliere di porre il «dovere di proteggere» innanzi a un altro dovere, quello del segreto professionale?
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