Psicoeducazione e promozione della salute

Articolo pubblicato su “Acta Psychologica”, N.2 – 2/92

Pietro Stampa e Alberto Zucconi intervistano Dale Larson, docente di “Counseling Psychology “ e direttore del Programma di Psicologia della Salute, Università di Santa Clara, California.

 

 

 

 

L’ espressione “Giving Psychology Away”, che si potrebbe tradurre un po’ liberamente in italiano “Psicologia per tutti”, è la parola d’ ordine che tu hai diffuso nel campo della psicologia della salute. Questa e- spressione contiene una filosofia nuova, e fa riferimento a dei metodi di intervento specifici, che tu definisci di “psicoeducazione“: vorremmo che illustrassi l’ una e gli altri ai nostri lettori.

L’idea centrale della “Psicologia per tutti” è la trasmissione alla gente, e la circolazione tra le persone comuni, di concetti e strumenti propri della psicologia, con lo scopo di sviluppare in loro capacità, idonee sia ad affrontare i propri problemi che ad aiutare gli altri a fare la stessa cosa.

Il metodo, finora, è consistito fondamentalmente in programmi di training e di educazione psicologica condotti sia attraverso interventi diretti che attraverso la distribuzione di sussidi didattici.

Il punto di partenza è che, in una società come la nostra che muta con grandissima rapidità, occorre rinnovare continuamente le proprie capacità adattive, sviluppando schemi sempre diversi nel corso del tempo e nei diversi contesti. Non è automatico che l’ apprendimento spontaneo, attraverso l’ esperienza, sia sufficiente: le capacità di problem solving, la capacità di stabilire buoni rapporti di comunicazione, o di governare lo stress connesso ai cambiamenti delle condizioni di vita, sono tutte capacità che possono essere insegnate alla gente dagli psicologi.

Questo insegnamento, per altro, non ha solo un’ utenza potenziale di persone comuni, cui la psicologia è in grado di fornire opportune tecniche per migliorare la qualità della vita: i destinatari possono essere anche tutte le figure delle professioni di aiuto, e naturalmente gli psicologi stessi, con l’ obiettivo di aumentare la propria efficacia presso i clienti.

Gli assunti operativi di base della psicoeducazione sono tre:

  • chi presta un’ opera di aiuto si pone piuttosto come un educatore che come un terapista;
  • i problemi del cliente sono visti piuttosto come lacune dell’ apprendimento, o come distorsioni dell’ adattamento, che non come sintomi;
  • il cliente è considerato parte attiva della relazione, e in grado di dirigere egli stesso il processo di apprendimento, anziché ricevere passivamente una “cura”.

Vedo entusiasti i colleghi coinvolti in programmi così impostati: il fatto è che il modello non è un modello “radicale“, ideologico, e al tempo stesso propone una visione indipendente, non medica ma semmai appunto educativa, della professione dello psicologo.

Questo in termini di metodo. E in termini di contenuti, qual è il rapporto fra la psicoeducazione e la promozione della salute?

Finora lo psicologo si è comportato un po’ come se potesse solo dedicarsi a “riparare“ qualcosa che si è rotto, piuttosto che a impedire che continui a rompersi.

E’ un po’ come se ci trovassimo sulla riva di un fiume, e passassimo il nostro tempo a tuffarci per riportare a riva la gente che ci passa davanti trascinata dalla corrente, gridando che sta per affogare… Questa gente però è davvero tanta: qualcuno di noi deve decidersi a risalire il corso del fiume, fino a trovare il punto pericoloso dove la gente scivola in acqua, e porre lì un rimedio al problema.

Faccio un esempio. La psiconeuroimmunologia, che è una intersezione fra discipline scientifiche molto recente e promettente, ci permette oggi di conoscere più analiticamente gli effetti che stati emozionali negativi possono avere sulla nostra capacità di difenderci dalle malattie: del resto era dimostrato già da molto tempo che in condizioni di stress la nostra risposta immunitaria subisce una flessione, e siamo complessivamente più esposti agli attacchi dell’ ambiente. Un gruppo di ricerca dell’ Università del Michigan, collegato con noi, ha studiato gli effetti dell’ isolamento sociale sulla salute, giungendo a dimostrare che l’ isolamento sociale è uno dei principali fattori di mortalità, pericoloso forse quanto il fumo.

Molto in generale, insegnare alla gente a comunicare e socializzare, a lavorare, mangiare e dormire correttamente, a fare esercizio fisico ed evitare di esporsi volontariamente a sostanze tossiche, a vivere il cambiamento come una sfida positiva, come un’ occasione per esprimere la propria creatività e non come una semplice rottura di abitudini cristallizzate o come una persecuzione: tutto questo è ciò che possiamo insegnare per promuovere la salute psichica e, di conseguenza, fisica.

La promozione della salute richiede così una varietà di interventi, da quelli più generali che mirano a ridurre l’isolamento sociale, o il consumo di alcool e sigarette, a quelli più specifici per comunità e grandi gruppi, fino a possibili interventi su piccoli gruppi, famiglie, individui.

Gli interventi del primo e forse anche quelli del secondo tipo richiedono certamente /’ impiego di strumenti di comunicazione non convenzionali per la psicologia: in pratica, questi interventi non possono avvenire in altro modo se non attraverso i mass media. Ciò richiederà una nuova competenza comunicativa per gli psicologi… Fino a che punto è importante l’ impiego dei mass media nella psicoeducazione, e fino a che punto è importante che gli psicologi impegnati in questo genere di interventi acquisiscano abilità specifiche?

Definirei i mass media come un’ arena nella quale si misura inevitabilmente l’ efficacia di un programma di psicoeducazione. Il problema è che i mass media si prestano più alla semplice diffusione dell’ informazione, e quindi, naturalmente, di una consapevolezza, che non all’ insegnamento nel senso del trasferimento di competenze.

I programmi di psicoeducazione hanno bisogno spesso di essere supportati dalla tecnologia, questo sì: ma devono essere pensati come programmi molto precisi, sia quanto al contenuto, sia quanto alle esigenze dei fruitori, e anche delle esigenze degli insegnanti. Bisogna che, al tempo stesso, il programma sia esattamente definito in tutti i dettagli, e i soggetti che lo mettono in pratica si sentano molto liberi. Questo, evidentemente, non è possibile con i mass-media.

Per altro, i mass media consentono qualcosa che con il contatto diretto – individuale, di coppia o di gruppo – non è possibile ottenere: consentono di raggiungere contemporaneamente migliaia e migliaia di persone, e per di più in modo molto economico, ciò che consente anche di iterare i programmi ottenendo risultati più stabili nel tempo. A lungo tempo, l’ utilizzo dei mass media sarà sempre più centrale nell’ applicazione del paradigma psicoeducativo, e viceversa questo sarà in modo “naturale“ molto presente nei mass-media. Per fare un esempio, si calcola che entro il prossimo decennio un 75 % circa dei programmi televisivi negli Stati Uniti avranno di fatto carattere psicoeducativo: nel senso che, abbandonate finalmente le soap operas – che hanno una struttura drammatica ripetitiva, inevolutiva – la TV mostrerà di preferenza scenari di vita reale, popolati da personaggi credibili alle prese con problemi della vita di tutti i giorni, fornendo esempi di come comportarsi in situazioni concrete, come evitare atteggiamenti inadeguati etc.

Quanto all’ uso più corrente della tecnologia nei programmi di psicoeducazione, non è necessariamente sempre una tecnologia avanzata, che richieda allo psicologo abilità e competenze specifiche: vi sono dei supporti didattici più sofisticati, quali videotapes e programmi di computer, ma anche opuscoli, o talvolta interi manuali appositamente concepiti.

I programmi di psicoeducazione su grande scala, specialmente se prevedono la diffusione di materiali audio, video o stampati, e specialmente se provengono da una fonte istituzionale (per e- sempio governativa), richiedono certamente anche un requisito che in Italia riesce difficile immaginare realizzabile: un alto grado di fiducia e di confidenza tra produttori-distributori da una parte, e fruitori dall’ altra. In Italia la gente ha scarsa fiducia nelle istituzioni, a causa della loro inefficienza e del loro costo sociale troppo elevato. Questo problema esiste in qualche misura anche negli Stati Uniti? Come viene affrontato nella progettazione e nella realizzazione dei programmi di psicoeducazione basati sui mass media?

Un buon esempio di quello che dite potrebbe essere quello del programma “Friends Can Be a Good Medicine“ (Gli amici possono essere una buona medicina), lanciato dallo Stato della California per la promozione del benessere psicofisico dei cittadini attraverso la promozione dell’ integrazione sociale, la partecipazione, la cortesia e l’ attenzione reciproca. Lo Stato della California riconosce ufficialmente che tra gli obiettivi della sua Amministrazione vi è il benessere e l’ autostima dei cittadini, e ha lanciato questa e altre campagne di psicoeducazione con ottimi risultati. Certamente, si tratta di campagne che riguardano la gente che già sta bene, e intende migliorare ulteriormente le proprie condizioni di vita…

Il problema si pone certamente in modo diverso negli Stati Uniti e nel vostro Paese. La gente negli Stati Uniti non ha un rapporto così difficile con le Autorità. Comunque, la questione è un’ altra: come dicevo prima, tranne casi particolari un programma di psicoeducazione, anche su larga scala, va pensato piuttosto come iniziativa di un gruppo o di una comunità, mentre ai mass media si deve affidare il compito di diffondere informazione e creare sensibilità in quest’ area. Un programma di psicoeducazione può riguardare, per esempio, gli impiegati e gli operai di una fabbrica, o di un’ amministrazione, oppure gli studenti di un college. A queste popolazioni si propone prima una valutazione di base dei loro problemi e delle loro difficoltà, poi una serie di interventi mirati al superamento di comportamenti inadeguati e allo sviluppo di competenze e capacità presenti in modo non sufficientemente maturo e completo, o addirittura assenti. Per far questo si organizzano incontri e corsi, si distribuiscono materiali didattici, si eseguono verifiche collettive su problemi specifici attraverso sondaggi e rilevazioni etc.

La promozione della salute attraverso la psicoeducazione, dunque, non deve essere pensata solo come un’ operazione su larga scala: è piuttosto un’ operazione basata sulla possibilità di contattare simultaneamente alcune decine o centinaia di individui, intervenendo sulle loro difficoltà adattive promuovendo il cambiamento nel senso di comportamenti più adeguati, che sono possibili quando vengono corrette le distorsioni e colmate le lacune, attraverso l’ acquisizione e lo sviluppo di nuove competenze e capacità.

Un’ obiezione che si potrebbe fare a questo approccio, è che tutti noi abbiamo una certa tendenza a mantenere, a proteggere proprio le distorsioni del nostro adattamento: senza necessariamente ricorrere all’ apparato concettuale della psicoanalisi, si può dire che noi opponiamo delle resistenze ai tentativi di modificare il nostro adattamento, anche se questi tentativi li abbiamo sollecitati noi stessi, per esempio consultando un terapista. Queste resistenze si dovrebbero manifestare anche nelle persone che partecipano a un training o a un seminario di psicoeducazione, a misura che questo è destinato a modificare il loro adattamento. Che riscontro se ne ha nei programmi di psicoeducazione?

Credo sia una questione di prospettiva. Un conto è proporre a una persona un approccio psicoterapeutico complessivo, un conto è identificare insieme a questa persona delle specifiche competenze in cui è carente, delle capacità che possiede solo in modo potenziale o abbozzato, e trovare insieme a questa persona la strada giusta per insegnargliele, per svilupparle e praticarle.

La resistenza al cambiamento esiste al di là di ogni dubbio: ma spesso noi ci troviamo di fronte a una difficoltà delle persone di focalizzare le proprie esigenze da un lato, e le proprie risorse dall’ altro. Un programma di training delle capacità che una persona può effettivamente sviluppare con l’ aiuto dello psicologo, può non incontrare una resistenza tale da destinarlo al fallimento.

Direi anzi che negli Stati Uniti il grande successo del modello psicoeducativo è dovuto certamente ai suoi risultati pratici presso la gente, presso le persone comuni che di regola non hanno “disturbi“ veri e propri, ma carenze, lacune, difficoltà adattive, e non hanno bisogno di una vera e propria psicoterapia, quanto di acquisire una migliore conoscenza di sé e sviluppare le proprie capacità e acquisire nuove competenze.

Per esempio, esiste uno stress specifico connesso con la responsabilità e con la fatica di allevare un figlio. Si può insegnare alle persone comuni a essere dei buoni genitori, dei genitori di tipo nuovo con un più alto grado di soddisfazione e una migliore tolleranza allo stress.

Occorrerebbe comunque delineare ed esplicitare un modello della vita mentale che giustifichi questa fiducia nella possibilità di cambiare: per esempio, un modello nel quale le distorsioni adattive vengano coerentemente considerate come semplici “errori“, privi di una propria economia…

Se ci si chiama fuori dal modello medico, se non si pensa più al rapporto psicologo/cliente come a una specie di rapporto medico/paziente, e lo si considera piuttosto un rapporto istruttore/allievo, non occorre seguire un particolare modello della vita mentale per affermare il paradigma psicoeducativo. Non importa qual è la teoria di riferimento, se tendenzialmente psicodinamica, umanistica o behaviorista: l’idea che la conoscenza possa essere trasmessa attraverso l’ insegnamento è presente in tutte le teorie e in tutti modelli della vita mentale.

Io credo che tutte le psicoterapie finiscano per riproporre, almeno in parte, il modello medico/paziente, ed è per questo che a un terapista può essere difficile immaginare il ruolo di psicoeducatore nel modo in cui il paradigma lo propone. Come aveva individuato Sheldon Korchin, molte forme di apprendimento – quello e- motivo e quello cognitivo, il condizionamento operante, l’ identificazione, il modeling – sonoprocessi comuni ai più diversi tipi di psicoterapie: la questione è che nessun tipo di psicoterapia istituisce il terapista come un educatore, un istruttore, un insegnante quale invece egli è in effetti.

Nel paradigma psicoeducativo questa scelta è esplicita e centrale: ne consegue che i processi di apprendimento, nel loro insieme, divengono il cuore dell’ intervento. Ecco perché, come dicevo all’ inizio, nel paradigma non consideriamo i comportamenti disadattivi alla stregua di sintomi, ma di carenze o distorsioni, che possono essere correte o colmate attraverso l’ acquisizione o lo sviluppo di capacità e competenze inespresse. Ecco perché il cliente è considerato parte attiva dell’ intervento, e viene incoraggiato ad assumersi la propria parte di responsabilità nella conduzione del trattamento, e, per estensione, della propria vita.

Esattamente come avviene in psicoterapia, lino dei correlati del paradigma psicoeducativo dovrà essere la persistenza nel cliente degli effetti dell’ intervento. Rendendo il cliente parte attiva e responsabile, lo si abilita quindi anche a valutare se o meno il trattamento (in questo caso: l’apprendimento) abbia prodotto in lui cambiamenti stabili, e quale sia la “tenuta“ delle sue nuove, più funzionali modalità adattive?

Si tratta proprio di questo. Per esempio, un cliente a cui sia stato insegnato un metodo di problem solving si trova in una posizione migliore per affrontare molti problemi diversi, in molte situazioni diverse, che non un cliente che risolve un particolare problema insieme a un particolare terapista.

Io però non sto sostenendo che la psicoterapia debba lasciare il posto alla psicoeducazione. Sto sostenendo invece:

  • che occorrono dei programmi di psicoeducazione per la promozione della salute e del benessere delle migliaia e migliaia di persone che non possono usufruire della psicoterapia,
  • e al tempo stesso che i terapisti dovrebbero divenire più consapevoli della dimensione psicoeducativa già presente nella loro attività, e lavorare in modo più consapevole al livello dei processi di apprendimento che sono comuni a tutti i tipi di psicoterapia.

La maggior parte del tempo di una psicoterapia, di qualsiasi psicoterapia, trascorre di fatto in una attività psicoeducativa di cui di solito il terapista è meno cosciente del cliente. Se il terapista sviluppasse programmi di training psicoeducativo, all’ interno della psicoterapia, da attuare in modo sistematico e strategico, la psicoterapia ne sarebbe potenziata. Se i terapisti nel loro insieme sviluppassero programmi di psicoeducazione su larga scala, la loro professionalità sarebbe messa a disposizione di un numero di utenti straordinariamente più elevato.

Quando parlo dei terapisti, piuttosto che dei loro modelli teorici e teorico-tecnici di riferimento, lo faccio inoltre perché voglio assumere che i terapisti in quanto individui che hanno scelto di praticare una professione di aiuto, non selezionino i clienti in base alla loro adattabilità al modello, ma cerchino piuttosto di adattare il modello alle esigenze dei clienti. In realtà questo spesso è proprio quello che non avviene.

Ci sono insomma più resistenze al cambiamento, più rigidità, nei modelli teorici e teorico-tecnici della psicoterapia che non nei clienti?

Appunto. Molti terapisti, per fortuna, proprio in quanto sono di fatto anche degli psicoeducatori, riescono ad adattare le modalità di intervento ai diversi clienti, e così la relazione di aiuto con il cliente prevale sulla fedeltà del terapista al proprio modello, e il cliente riceve l’ aiuto egualmente. Se l’ approccio psicoeducativo fosse più esplicito, il problema della fedeltà del terapista al modello, e dell’ adattabilità a questo da parte del cliente, non si porrebbe nemmeno.

Negli Stati Uniti ti sembra di riscontrare una tendenza in questo senso? E in ogni caso, come ritieni che il paradigma psicoeducativo influenzerà in futuro la psicoterapia?

Sì, c’ è una tendenza evidente, e credo che la psicoterapia in futuro si modificherà sempre più proprio nel senso di esplicitare quella propria dimensione psicoeducativa interna, che già esiste nei fatti, in modo che i terapisti svolgano con consapevolezza sempre maggiore il loro ruolo di istruttori-insegnanti.

Il tipo di progresso che occorre alla psicoterapia può essere espresso da quell’ antico proverbio cinese: « Se dai a un uomo un pesce, lo sfami per un giorno; se gli insegni a pescare, lo sfami per tutta la vita ». Curare una persona è come darle un pesce, sviluppare in lei delle capacità e competenze è come insegnarle a pescare.

Anche il Presidente cinese Mao Tse Tung amava ripetere questo proverbio… Una volta un giornalista lo propose polemicamente a Madre Teresa di Calcutta, come possibile obiezione al suo approccio esclusivamente umanitario, prepolitico ai grandi problemi che affliggono i Paesi in via di sviluppo: forse, suggeriva il giornalista, anche Madre Teresa era caduta in questo equivoco, dava agli affamati un pesce, anziché insegnar loro a pescare. « Il punto », rispose Madre Teresa tranquillamente, è che io mi occupo di gente che non ha nemmeno la forza di reggere nelle mani una canna da penna ».

È una citazione molto bella, alla quale non si può ribattere nulla. È giusto che ognuno faccia la sua parte. Dobbiamo solo augurarci che le persone costrette in una condizione covi disperata stano sempre meno al mondo f quanto j dipende questo dagli psicologi? Non molto, purtroppo, e sempre più si ponga il problema di come poter aiutare la gente a sviluppare le proprie competenze, piuttosto che aiutarla solo a sopravvivere. Fuori di metafora, comunque, il fatto che nei Paesi sviluppati sempre meno persone in futuro abbiano bisogno di cure mediche o psicologiche, dipende dalla nostra capacità di presentare il disagio e la malattia, e di promuovete comportamenti individuali e collettivi adeguati a mantenere un grado il più elevato possibile di benessere psicofisico.