Un protocollo diagnostico sull’abuso all’infanzia. Modelli teorico-clinici per l’intervento psicologico

Articolo pubblicato su “Acta Psychologica”, N.8 – 08/96

Autrice: Nunzia Marciano

 

1. La cornice teorica

Il concetto di età evolutiva — quale è attualmente utilizzato per definire una fase fondamentale e peculiare del ciclo vitale che diviene oggetto di analisi, ricerca ed intervento clinico e verso la quale attivarsi concretamente per la cura e la tutela — è un concetto moderno, caratterizzante la cultura del nostro secolo.

È infatti da poco più di cento anni che gli apporti più vari, scaturiti da diversi ambiti della riflessione filosofica e scientifica (in genere da scienze anch’esse “nuove”: la pediatria, la psicoanalisi, l’antropologia culturale, la sociologia) hanno concorso a creare un movimento di cambiamento culturale talmente radicale da poter essere letto come una “rivoluzione copernicana” per la quale “il fanciullo diventa il sole attorno al quale ruotano gli strumenti dell’educazione” (Dewey).

Questo movimento trasformativo, strettamente connesso al mutamento formidabile dei mezzi e dei cicli di produzione dall’economia rurale all’industrializzazione avanzata, ha portato alla costituzione dell’infanzia come soggetto nella misura in cui ha prodotto la riduzione del tempo di permanenza dei genitori all’interno della casa, l’eliminazione della possibilità di partecipazione del bambino alle attività degli adulti, il ritardo dell’inserimento nel mondo del lavoro.

Se a questo si associa il problema che nelle prime fasi dell’accudimento ha comportato il ritmo rapidissimo e spesso irrazionale dell’urbanizzazione, si comprendono ancora meglio le motivazioni strutturali che sono state sottese alla nascita dell’interesse per l’infanzia e per le problematiche che ad esse risultano connesse (Tisato).

È con l’istituzione dei primi asili nido, costruiti all’interno degli edifici delle fabbriche o nei quartieri operai più gravemente deprivati, che si afferma la necessità, e il diritto, per il minore di forme di cura, parallelamente alla necessità per l’adulto, genitore o operatore sostitutivo, di disporre di indicazioni adeguate ricavate dall’osservazione delle reali e concrete esigenze del bambino (Montessori).

In questo senso, al di là dei contrasti strettamente metodologico-pedagogici, l’ideale positivista del progresso inevitabile verso il benessere grazie alla razionalizzazione e alla organizzazione tecnico-scientifica dei vari aspetti dell’esistenza, che aveva permeato l’ideologia e la ricerca fin dal secolo precedente, ben si armonizza con il diffondersi della corrente spiritualista, che dal canto suo esaltava l’infanzia nei suoi aspetti estetici, creativi, espressivi e ludici (Fornaca).

L’infanzia venne quindi “scoperta” in modo trasversale, attraverso un movimento politico-economico che colse l’importanza di dare nuove risposte ai nuovi bisogni urgentemente proposti dalle grandi masse di proletariato allo scopo di garantire la stabilità e la pace sociale; tuttavia il seme della nuova cultura dell’infanzia era stato ormai posto e negli anni successivi sempre più essa consoliderà il proprio spazio e ne conquisterà uno più ampio.

I contributi della psicoanalisi nella costruzione di questo spazio sono massicci e preponderanti, a partire da Freud che con la sua sistematizzazione delle frammentarie conoscenze dell’epoca sul funzionamento della psiche in un modello coerente e leggibile in senso scientifico, definì la centralità cruciale per lo sviluppo dell’individuo dei primi anni di vita del bambino.

 

Inoltre, dalle prime affermazioni freudiane per cui il bambino deve «appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori» (Freud), cresce anche nella comunità scientifica la consapevolezza che il bambino rappresenti non già un oggetto passivo delle cure dei genitori verso la crescita, ma piuttosto un elemento attivo propulsore egli stesso per la crescita degli adulti, nella misura in cui si fa contenitore delle angosce della coppia genitoriale consentendo a ciascuno dei membri una ulteriore e definitiva ricapitolazione e rielaborazione dei nodi irrisolti relativi al proprio sviluppo relazionale.

Il percorso che ha condotto a questa visione relazionale dell’organizzazione psicologica del bambino e dell’adulto è segnato dalla straordinaria trasformazione concettuale che ha portato al tramonto del modello pulsionale.

Per cui, se nell’approccio delle scuole freudiana e kleiniana si riconosce all’interno dell’individuo un mondo istintuale con primitivi bisogni di nutrimento che richiedono soddisfazione e un sistema di difese mirato a compiti di dominio\soddisfazione di tali istanze, individualmente ovvero attraverso la relazione oggettuale, i contributi del pensiero di Bion, della psicologia del Sé, della teoria dell’attaccamento e perfino del cognitivismo hanno gettato luce sui bisogni di nutrimento affettivo come organizzatori del percorso evolutivo e sulla relazione oggettuale come sede dei processi di trasformazione indispensabili alla strutturazione del pensiero e della personalità.

L’apporto della psicoanalisi assume dunque una doppia valenza nel corso dello sviluppo della cultura dell’infanzia perché se da una parte propone modelli riguardo la genesi e l’evoluzione della personalità in senso ontogenetico e filogenetico

dal punto di vista dell’individuo, d’altra parte, soprattutto nelle elaborazioni successive a quella freudiana, contribuisce ad ampliare sempre di più la dimensione relazionale dei fenomeni evolutivi e ne descrive le complesse implicanze a livello dei sistemi collettivi, dalla famiglia ai gruppi non naturali.

Peraltro, il modello relazionale, tipico degli approcci psicoterapeutici attualmente più avanzati, pur non disponendo di una teoria molto definita, poiché riguarda principalmente un approccio clinico appunto e in particolare alcuni aspetti della relazione terapeutica relativi a caratteristiche generali della personalità, definisce chiaramente come il bambino possa osservare la relazione della coppia coniugale fin dalla nascita e prestando attenzione alle caratteristiche di questa relazione, arrivi a definire sé stesso.

Ma a partire da questa definizione viene organizzata la relazione di attaccamento con il padre e con la madre separatamente e, relativamente ai livelli di rassicurazione su cui essa riesce ad essere modellata, si sviluppano l’apprendimento e la crescita psicologica: da forme creative di apprendimento dall’esperienza, ad aspetti di finalizzazione dell’apprendimento al controllo, a modalità difensive ambivalenti, fino a veri e propri deficit dell’apprendimento quando i modelli di attaccamento sono confusivi, bizzarri o paradossali.

Da questa forma di categorizzazione delle possibilità di sviluppo è immediato lo spostamento sul piano teorico-clinico dalla nosografia individuale a quella familiare.

In questo contesto, il paradigma causativo tende a scomparire a favore di quello dell’interazione si passa dall’osservazione della famiglia attraverso il suo prodotto, il bambino, ad un nuovo oggetto per cui essa viene riconosciuta come gruppo e in quanto tale guadagna un proprio specifico spazio epistemologico e clinico.

Inoltre il modello funzionale con il quale tradizionalmente si descriveva questo gruppo secondo il criterio dipendenza\controllo sociale, viene sostituito da un modello genetico impostato invece sul criterio interdipendenza\conflitto\crescita e ciò segna il passaggio dal punto di vista centrato sull’equilibrio, visto come adattamento della famiglia ai dati di fatto della realtà sociale, ad un nuovo punto di vista centrato sull’adattamento definito in senso costruttivo.

In particolare, l’oggetto famiglia può essere attualmente descritto alla luce di elementi caratteristici riferiti rispettivamente alla teoria dello stress e a quella dello sviluppo: nel primo caso, in cui il concetto chiave è quello di cooperazione, è centrale e positiva la funzione del conflitto, per la prevenzione della stagnazione, lo stimolo della curiosità e la promozione della differenziazione e dell’identità personale e di gruppo, ed è peculiare rispetto alla storia della famiglia lo stile di soluzione adottato relativamente ai miti familiari, dalle modalità dell’impegno a quelle dell’evitamento; la seconda teoria descrive, invece, la famiglia come un agente attivo, i cui membri sono legati da una interazione multigenerazionale in evoluzione attraverso fasi, cicli vitali, promossa da eventi critici.

Questa organizzazione concettuale dell’oggetto famiglia nella sua globalità, tipica determinante teorica dell’approccio clinico della terapia familiare, nasce, negli anni Cinquanta, dall’incontro, nella ricerca clinica, con la teoria dei sistemi ed è espressione della necessità di costruire una modalità di intervento per la prevenzione e la cura che consenta di centrare l’attenzione all’interpersonale e al gruppo quale agente del proprio cambiamento (Scabini).

Tutti i fenomeni evolutivi e gli accadimenti dell’esperienza in una famiglia, o in un gruppo di tipo artificiale, possono essere letti in questa ottica sistemico-relazionale e ciò cambia non soltanto a prospettiva di elaborazione di certi eventi, ma concorre a connotare gli eventi stessi in modo differente.

 

  1. La fenomenologia

Il caso dell’abuso all’infanzia rientra perfettamente in questa cornice teorica. Già nell’uso di questo termine si evidenzia la volontà di superamento della visione dei fenomeni ascrivibili a tale campo (violenza, maltrattamenti) come meri atti criminosi unilaterali, mentre si propone una definizione onnicomprensiva di modalità relazionali incongrue che ha «alla radice una componente multifattoriale sintetizzabile nelle tre aree di fattori – sociali, familiari, individuali del bambino – ed è sempre espressione di una sofferenza intrapsichica ed interpsichica che non coinvolge solo l’abusato, ma anche l’abusante e tutta la famiglia» (Montecchi).

D’altronde, e questo è un ulteriore contributo della riflessione psicoanalitica, gli istinti, i bisogni e le spinte motivazionali interne sono comuni al genere umano, e solo una massiccia messa in atto di sistemi difensivi di tipo proiettivo può sostanziare dinamiche del genere colpa/persecuzione tipiche del senso comune a proposito dell’abuso.

L’abuso, pertanto, deve essere trattato come segno eclatante di una patologia familiare sommersa che ha alle origini fantasie di danno e morte ovvero idealizzazioni grandiose, associate a vissuti personali nella mente dei genitori a proposito dei figli; come prima espressione disturbi dell’empatia nel primo accudimento, disfunzioni della genitorialità, relativi alle caratteristiche della regressione materna, a vissuti di invidia, gelosia e minaccia nella funzione paterna e specifiche caratteristiche del bambino (cattiva nascita, disturbi della regolazione) e, sostanzialmente si concretizza in una disarmonia tra bambino fantasticato e bambino reale che produce una visione distorta, da parte dei genitori abusanti, delle reali esigenze del bambino.

L’abuso perciò non può essere letto come espressione di incapacità da parte degli adulti, ma come una vera e propria strategia attuata in relazione a carenze dell’investimento verso la terza generazione e a un sovraccarico dell’investimento verso la prima o verso il partner (sindrome di Medea).

In questo senso l’abusante esibisce la propria incompetenza nella relazione con il bambino in modo strumentale, utilizzando l’abuso per chiedere aiuto al partner o ai propri genitori nella gestione di tale relazione come forma di risarcimento rispetto olle mancate cure ricevute.

Gli aspetti perversi di una simile strategia risultano maggiormente se si considera che il partner e la famiglia di origine sono paradossalmente bloccati nel dare questo aiuto e se dovessero riuscire a fornirlo concretamente, spezzando il circolo vizioso e interrompendo l’abuso, l’autostima e l’identità stessa dell’abusante potrebbero essere sottoposte ad un crollo dalle proporzioni incontenibili fino ad arrivare al suicidio (Cirillo).

Per quanto riguarda poi la rilevanza psicologica dell’abuso, va tenuto presente che il potenziale patogeno non è da riferire all’elemento traumatico che l’evento contiene, ma piuttosto alla costellazione di difese che esso contribuisce ad attivare nella mente dell’abusato, nel tentativo di escludere dalla propria vita emozionale i sentimenti di angoscia e i vissuti di colpa che si accompagnano agli episodi di abuso nonché a salvare le figure di attaccamento dalle quali comunque dipende la possibilità di sopravvivenza psicologica dell’abusato.

Ciò comporta una visione sistemica, meno determinista, del concetto di “madre sufficientemente buona”: ciascun bambino si attiva con tutte le risorse di cui dispone per stimolare le parti contenitive, la capacità di reverie della propria madre, o del proprio ambiente affettivo in generale, perché ne ha bisogno per esistere psicologicamente, oltre che fisicamente; quando le condizioni ambientali sono particolarmente sfavorevoli, il bambino è portato ad organizzare i propri vissuti e i propri pensieri in modo da renderle comunque buone, anche a costo di dover modellare il funzionamento della propria mente secondo i caratteri disgregati e confusi della psicosi.

Questo spiega l’alta frequenza di patologie psichiatriche in bambini abusati come la valutazione retrospettiva di abuso in pazienti psichiatrici adulti ovvero in genitori abusanti con esperienze infantili di questo tipo.

Dal punto di vista relazionale scompare, quindi, la dimensione vittima\carnefice e si assiste a un dramma in cui le vittime sono due, mentre sul piano clinico l’accettazione e la comprensione sostituiscono il giudizio: piuttosto che perseguire il colpevole si tratta di restituire a ciascuno degli attori le proprie responsabilità perché anche l’abusato possa prendere contatto con le parti di se stesso che hanno determinato la collusione perversa (Cirillo).

In generale secondo questa visione interattiva, l’abuso può essere perciò compreso solo all’interno della storia di un gruppo, il contesto familiare, dove ogni membro mette in comune con gli altri le esperienze della propria famiglia di origine e del proprio ambiente sociale ed è pertanto necessario tenere presenti le caratteristiche di ciascuno come elementi che espongono a rischio di patologia (Tortolani).

Nel caso del bambino: cattiva nascita, prematurità o basso peso sono gli iniziali fattori di rischio, perché spesso questi si correlano ad una separazione precoce della diade madre-bambino e ciò compromette lo sviluppo di una positiva relazione di attaccamento; allo stesso modo l’insorgenza di malattie gravi, che ingenera nei genitori sentimenti di colpa e inadeguatezza relativamente alla aspettativa di aver potuto generare un figlio sano; pianto, rifiuto, difficoltà di alimentazione, disturbi del ritmo sonno-veglia e del controllo sfinterico e disturbi della condotta in generale sono poi ulteriori fattori di rischio per l’alto livello di stress cui possono portare i genitori fino a scatenarne la reazione violenta.

L’inesperienza ovvero la stanchezza, come difficoltà ad affrontare situazioni stressanti, sembrano infatti tra i fattori predisponenti di rilievo per quanto riguarda i genitori; altri fattori in questo campo sono disturbi della madre in gravidanza, disturbi di personalità pregressi, esperienze di abuso nella propria infanzia.

Infine, da tenere presenti rispetto al rischio di abuso, sono fattori socio-ambientali, quale la precaria occupazione o la disoccupazione del padre, il basso reddito, la convivenza con altri nuclei, la non adeguatezza delle condizioni abitative, l’isolamento sociale, la disgregazione della famiglia (Martone).

Queste considerazioni mettono in luce la sostanziale omogeneità, al di là del tentativo di mascheramento all’esterno, tra le dinamiche dominanti tra le famiglie psicotiche e quelle delle famiglie abusanti, caratterizzate entrambe da conflitti gravi e negati nella coppia coniugale, strutturazioni di alleanze implicite e tendenza ad agire le fantasie incestuose (Tortolani).

In breve si può dire che il rischio di abuso è alto per quel bambino che non corrispondendo alla nascita al bambino immaginario fantasticato dai genitori, diventerà il capro espiatorio delle loro disarmonie e il ricettacolo delle parti negative della famiglia (Nicolò Corigliano).

A queste situazioni di estremo disagio non corrisponde una psicopatologia specifica, poiché la situazione traumatica dell’abuso tende ad essere dissimulata attraverso l’uso di meccanismi di difesa diversi che è rintracciabile in diversi quadri psicopatologici: le difese con cui il bambino controlla l’angoscia e i sensi di colpa derivanti dal bisogno di appagamento dei propri bisogni e dall’aggressività che prova nel vedere disattesi i suoi desideri, evitando al tempo stesso la depressione e la vergogna che derivano dal sentirsi inappagato e non amato, si articolano secondo un modello per cui l’uso di meccanismi di rimozione e negazione consente di dimenticare la malvagità degli abusanti, mentre quelli di proiezione e di scissione consentono di attribuire tale malvagità ad altri oggetti e organizzano l’esperienza in parti “buone” e “cattive”, solo in questo modo il genitore abusante può essere idealizzato perché possa compiersi il processo di identificazione secondo il meccanismo dell’identificazione con l’aggressore (Montecchi).

A partire da questi dati di carattere generale è possibile raccogliere in particolare le forme di abuso in tre grandi categorie, che definiscono quello da patologie delle cure, quello sessuale e quello psicologico, con caratteristiche particolari psicodinamiche e differenti esiti sul piano psicopatologico e della trattabilità.

Per quanto riguarda la patologia delle cure, in tutti i casi (incuria, discuria, ipercuria e sindrome di Münchausen per procura) la madre, generalmente dotata di un livello di cultura medio-alto e fortemente dipendente dalla propria madre, è indicata come figura abusante e descritta come personalità narcisistica, con ansia, depressione, idee di riferimento legate a vissuti corporei frequentemente correlate all’impegno in una professione dell’ambito sanitario, uso massiccio di meccanismi di negazione delle pulsioni aggressive e sessuali e forti ambivalenza con proiezioni paranoidi. Il padre, invece, è molto periferico, a volte assente per motivi di lavoro e, sostanzialmente disimpegnato rispetto al problema, tende a non voler vedere il comportamento abusante, a negarlo in modo collusivo. Anche il bambino, dal canto suo, tende a colludere con la madre, anche simulando uno stato di malattia come negazione della paura di essere abbandonato, nel tentativo di ottenere l’affetto di cui ha bisogno in cambio dell’aiuto che offre ai propri genitori rispetto all’esigenza che essi hanno di nascondere le proprie difficoltà psicologiche. In relazione all’abuso il bambino presenta in questi casi una percezione corporea distorta, tratti di isolamento, difficoltà scolastiche e una patologia psichiatrica legata ad una importante fragilità del sé con ansia, depressione, disorientamento spazio-temporale e fenomeni allucinatori, ovvero alla strutturazione di un falso sé modellato sulle aspettative materne. La complessità dei fenomeni collusivi illustrati rappresenta, infine, un elemento di grave difficoltà rispetto alle possibilità di trattamento.

Il problema è complesso anche per quanto riguarda l’area dell’abuso sessuale, sia perché questo si presenta sotto varie forme in ambito intrafamiliare, sia perché può assumere carattere extrafamiliare.

Nel caso degli abusi in famiglia, oltre alla differenziazione riferibile all’identità di genere dell’ abusante e dell’abusato, sono diversi dinamiche ed esiti a seconda che si tratti di una forma manifesta di abuso, che tende a far permanere il bambino in una situazione endogamica, bloccandone lo sviluppo, ovvero che promuove la formazione di una personalità di adulto abusante, ma che è trattabile con prognosi positiva; di un abuso mascherato, espresso sotto forma di pratiche genitali inconsuete (lavaggi, ispezioni, applicazioni di creme medicinali) che produce alterazioni anatomiche e comportamentali, nonché importanti disturbi della coscienza corporea, ed è inoltre praticamente intrattabile perché ha alla base nuclei perversi molto strutturati nella personalità dei genitori di uno pseudoabuso dichiarato senza che sia stato consumato per convinzioni deliranti o per colpire l’altro genitore in situazione di grave conflitto coniugale, che è trattabile con riserva rispetto alla possibilità di mediazione di tale conflitto.

In questi casi la generalità dei bambini abusali struttura personalità al limite ed evidenzia labilità emotiva, inibizione, depressione, difficoltà nel controllo degli impulsi legate a vissuti di angoscia, solitudine e tradimento.

Un caso a parte è poi quello dell’abuso extrafamiliare in cui il danno è dato dall’indebolimento dell’Io per il passaggio al concreto nell’esperienza del bambino delle proprie fantasie sessuali aggressive ed incestuose per cui l’abusato è esposto al rischio di frammentazione psicotica, dalla perdita della demarcazione tra realtà e fantasia.

La reazione dell’ambiente familiare in questi casi è importantissima rispetto alla possibilità del bambino di conservare il proprio mondo affettivo ricco e ben integrato anche se spesso è proprio la grave trascuranza affettiva della famiglia a rappresentare un rischio d’abuso e ad ostacolare la trattabilità, innescando piuttosto dinamiche di indennizzo di tipo giudiziario.

Infine l’abuso psicologico, a cui appartengono le più importanti forme psicopatologiche e che si evidenzia in genere in relazione a breakdown dell’abusato in momenti particolarmente impegnativi del ciclo vitale (pubertà).

I genitori che ricadono in questa categoria di classificazione non riescono a considerare il proprio figlio come una persona autonoma ma lo vedono piuttosto come una loro espansione narcisistica utilizzando nella relazione con il bambino meccanismi di identificazione proiettiva, ovvero coltivando aspettative grandiose sulle gratificazioni che questi potrà fornire loro.

I normali processi di identificazione del bambino sono alterati, la coesione del Sé minacciata e la possibilità di sopravvivenza psicologica è nella costruzione di un falso Sé adesivo in cui prevalgono conformismo, dipendenza, difficoltà di socializzazione, insicurezza, aggressività, ripiegamento narcisistico su sé stessi.

La mancanza di autostima e l’inconsistenza dell’identità sono danni incalcolabili se si considera inoltre che l’indice di trattabilità è scarso proprio per le caratteristiche psicopatologiche dei genitori collegate a questo tipo di abuso e per la caratteristica della famiglia a rispondere in modo omeostatico alle possibilità di cambiamento aperte da un approccio di intervento ispirato alla terapia familiare.

Anche nel caso dell’abuso psicologico la conflittualità nella coppia coniugale è una determinante fondamentale e l’impostazione di un intervento di mediazione, accanto ad altre forme di trattamento psicoterapeutico, risulta pertanto imprescindibile.

Interessante tenere presente in questo campo come la relazione crisi dei genitori-disturbo del figlio possa essere letta anche in modo inverso proprio nella misura in cui, come è già stato descritto, il minore piuttosto che vittima passiva si fa parte attiva nella relazione con gli adulti e quindi anche nel loro conflitto (tanto più quanto più duro è il conflitto) alleandosi con l’uno o con l’altro e agendo così le proprie dinamiche di gelosia attraverso l’assunzione di ruoli (ostacolo, ostaggio, presa in carico, stabilizzatore, etc.) diversificati a seconda del genitore e modellati sulle dinamiche affettive ed interattive della famiglia nonché sulle modalità educative che le sono proprie che hanno lo scopo di prolungare e proteggere il legame dei genitori (Quadrio)

 

3. Il protocollo diagnostico

Le strategie dell’intervento sull’abuso, proprio per le caratteristiche di complessità del fenomeno descritto, richiedono dunque innanzi tutto la costruzione di un sistema terapeutico che, nelle sue articolazioni di primo, secondo e terzo livello consenta l’utilizzazione di modalità congrue nell’individuazione dei casi, spesso non palesemente evidenti, nell’elaborazione di una diagnosi completa e complessa a sua volta, nell’organizzazione di percorsi di trattamento adeguati. In un sistema terapeutico di questo genere, è fondamentale poter disporre di strumenti di controllo, condivisi dalla comunità professionale e quindi codificati e trasmissibili che, da una parte, si costituiscano come linguaggio comune e, d’altro canto, si strutturino come materiale concettuale alternativo agli approcci tradizionali basati sul senso comune, che in quanto tali risultano sempre sottoposti all’alto rischio di far cadere gli operatori in posizioni ideologiche e/o moralistiche indirizzando in questo senso i trattamenti.

Gli aspetti scabrosi del problema rispetto alla risonanza che esso può suscitare nell’esperienza emozionale di coloro che lavorano in questo campo sostanziano l’esigenza di controllare le reazioni emotive permeate di dinamiche di impotenza/onnipotenza che si attivano in relazione al vissuto personale di ciascuno rispetto alla propria storia e alla qualità della modalità di gestione della rabbia che l’abuso suscita. Gli strumenti di controllo di cui si parla sono mirati a minimizzare la tendenza ad agire tali dinamiche, facendo sì che gli interventi specialistici e tecnici siano realmente e concretamente orientati alla tutela del minore ed efficaci rispetto all’obbiettivo della sua protezione.

Soprattutto i medici, i magistrati e gli avvocati, che sono chiamati per primi a trattare gli aspetti dell’accertamento e della tutela rispetto all’abuso, dovendo diagnosticarlo e provvedere in merito, possono essere soggetti all’attivazione proiettiva di modalità altrettanto violente di rilevamento e analisi, come di accertamento e giudizio, se non possono contare su strumenti di tutela rispetto a questo rischio.

Sul piano medico il momento del primo accertamento, in cui l’attenzione a segni clinici particolari va correlata all’attenzione ad atteggiamenti familiari anomali, è un momento cruciale in questo senso poiché definisce una dimensione di sospetto che richiede una competenza specifica per essere gestita ed elaborata piuttosto che agita attraverso un approccio inquisitorio e giudicante (Ungari-Gatti).

D’altra parte anche per i magistrati e gli avvocati, che dispongono di una formazione orientata in senso normativo, è necessario uno strumento che consenta di orientare gli interventi non solo sul piano delle indagini, ancorché psicologiche come nel caso delle perizie, ma anche e soprattutto sul piano del sostegno al minore e alle famiglie, come nel caso dell’uso della mediazione (Gullotta).

Uno strumento di controllo delle dinamiche inquisitive è importante perché esso rappresenta il nesso che consente di strutturare un intervento che, piuttosto che a punire il colpevole, sia finalizzato alla creazione di condizioni più adeguate per la crescita in favore dei soggetti coinvolti nell’abuso.

L’adozione di un paradigma concettuale del genere sembra un valido accorgimento contro il rischio di dividere l’universo della tutela dei minori secondo le categorie di “buono e cattivo” e la mediazione, piuttosto che la mera perizia, si definisce come una modalità che può dirsi preventiva rispetto alla cristallizzazione dei conflitti e alla cronicizzazione delle dinamiche abusanti, una delle possibilità aperte da un intervento di collaborazione tra magistratura e operatori sociosanitari.

Questo strumento finalizzato alla prevenzione e alla riduzione dei margini di rischio di ulteriore disagio psicologico per la globalità dei sistemi coinvolti nella situazione di trattamento dell’abuso, basandosi sulle considerazioni teoriche prima esposte, contribuisce a mutare le linee generali dell’ottica in cui si muovono generalmente le istituzioni, nella misura in cui si connota come primo punto di un modello di approccio al disagio che fa riferimento alle risorse degli individui piuttosto che a quelle dei servizi.

Tradizionalmente, infatti, le istituzioni preposte alla tutela dell’infanzia hanno strutturato i loro interventi secondo la logica di doppio livello in cui alla protezione del minore corrisponde il controllo dei genitori, definendo l’intervento come una sorta di accettazione di delega rispetto alla inadeguatezza degli adulti abusanti (Dell’Antonio).

All’elaborazione di una diversa linea è sottesa, invece, una logica che riconosce il carattere sistemico di tutti i fattori di rischio tipici della situazione di abuso ed essa è alla base di un intervento mirato alla ristrutturazione delle situazioni patologiche attraverso la riattivazione delle risorse disponibili piuttosto che alla promozione di una funzione sostitutiva da parte delle istituzioni.

In altre parole, attraverso l’accertamento di dati che corrispondono ad una lettura globale della situazione presa in esame, dove non ci sono più abusati da proteggere e abusanti da controllare, ciò che si auspica è la possibilità di procedere sostituendo la logica dell’ allontanamento del minore e di collaborare con le istituzioni tutelari per aiutare l’intero nucleo familiare a cambiare proponendo una nuova opportunità di apprendimento di modalità affettive e cognitive più adeguate (Tortolani).

L’utilizzazione di una nuova strumentalità è parte, quindi, del necessario lavoro di osservazione ed auto-osservazione che va svolto in équipe, dove il contributo dello psicologo nella fase diagnostica e di accertamento, oltre che in quella del trattamento riguarda, al di là dei pregiudizi e dei dogmi, la trattazione degli aspetti emotivi degli operatori accanto a quella delle esigenze terapeutiche del bambino e della famiglia, relativamente alle caratteristiche di ciascuno dei sistemi coinvolti.

L’elaborazione di questa nuova strumentalità rappresenta, inoltre, una modalità di intervenire nel complesso sistema del trattamento dell’abuso all’infanzia colmando il vuoto storico che descrive la carenza di protocolli di interventi validati da ricerca e lavoro clinico.

Pertanto, in linea con quanto detto a proposito dell’esigenza di controllare le dinamiche di sospetto e quindi giungere ad una circostanziata, ma non violenta, valutazione, è possibile lavorare attraverso un protocollo diagnostico che contenga una sezione per il riscontro dell’eventuale danno fisico e la rilevazione degli aspetti psicologico-comportamentali correlati alla situazione di abuso e sia organizzato in una serie di ulteriori sezioni che riguardano i vari aspetti del fenomeno che sono stati illustrati, con particolare riferimento alle storie familiari e alle dinamiche dell’attaccamento, in modo da consentire una visione sintetica che armonizza le procedure diagnostiche e gli obbiettivi dell’intervento.

La sezione con cui si apre riguarda quindi la raccolta dei dati anagrafici ed anamnestici che si riferiscono all’identità personale dell’abusato, alla sua collocazione abitativa, al tipo di abuso, alle istituzioni che sono coinvolte, dalla magistratura ai servizi sociosanitari, nonché comprende una parte per gli aggiornamenti di tali dati, qualora vi fossero dei mutamenti a seguito dell’intervento.

Nell’ottica di evidenziare la rilevanza dei fattori socio-ambientali, segue, poi, una sezione riguardante gli indicatori generali del maltrattamento, con riferimento oltre che alla famiglia nucleare, alle famiglie di origine della madre e del padre, da collegare a quella sugli eventuali nuovi nuclei ricostruiti, qualora si tratti di famiglie disgregate.

La particolare attenzione dedicata a questi aspetti si sostanzia sulla considerazione teorica, di cui si è già trattato, per cui la famiglia risulta un’organizzazione complessa di relazioni di parentela «che ha una storia e crea storia» (Scabini).

Il rilevamento della presenza nelle famiglie di origine di elementi quali l’isolamento, gli eventuali procedenti psichiatrici o penali, la disgregazione, l’abuso stesso, è rivolto alla ricostruzione di tale storia, che è la realtà relazionale della famiglia, secondo i tre livelli di osservazione delle regole, manifestale nei ruoli, delle emozioni, rintracciabili nelle dinamiche individuali e interattive e della sovrastruttura profonda, espressa nelle fantasie comuni, nei miti della famiglia (Andolfi); osservazione che riguarda le caratteristiche strutturali (ampiezza e gerarchizzazione dei ruoli, dinamiche di lealtà, modalità di svolgimento del ciclo vitale) e funzionali (regolazione delle distanze, sensibilità, flessibilità, modelli di sviluppo e di trasmissione intergenerazionale) della famiglia in questione.

Si passa quindi alle azioni che descrivono gli indicatori di rischio nella relazione madre-figlio e padre-figlio, in cui il evidenziano aspetti riguardanti l’andamento della gravidanza, le caratteristiche del parto, l’organizzazione del primo accudimento e dell’allevamento oltre olla presenza di dementi strettamente psicopatologici nelle personalità dei genitori, nella considerazione dell’importanza di questi fattori secondo gli apporti teorici già evidenziati riferibili alla teoria dell’attaccamento.

La fondamentale esigenza evolutiva per il bambino di una figura die svolga funzioni di “base sicura” può essere infatti soddisfatta solo a partire da certe influenze esterne (l’effettiva presenza della figura di attaccamento) ed interne (la competenza genitoriale), mancando le quali è ostacolata la possibilità di sviluppare la fiducia in sé e la capacità di ricevere e dare cure, per cui si può costruire una immagine di bambino ansioso, distaccato o indipendente in modo provocatorio (Bowlby).

Il comportamento di attaccamento, come espressione della tendenza dell’essere umano, che lo accompagnerà lungo l’arco della vita, a costruire legami affettivi e a provare angoscia, collera e depressione alla loro perdita, è infatti fortemente influenzato dalle esperienze affettive primarie che il bambino ha con i propri genitori (Bowlby), e laddove la relazione con questi sia caratterizzata da insensibilità, discontinuità, minacciosità, inversione di ruoli si rintracciano gli elementi dell’abuso. Come si è già detto, tali elementi sono correlati ad una organizzazione difensiva della personalità dell’abusato che costituisce la patologia dell’abuso e quindi definisce l’obbiettivo dell’intervento. È stato visto infatti, che già i neonati, essendo dotati del sistema di attaccamento che regola la ricerca di contatto e di vicinanza con le figure protettive allo scopo di aumentare le possibilità di sopravvivenza, costituiscono nel corso dell’interazione con il proprio ambiente affettivo dei modelli operativi interni del mondo fisico e sociale, la cui adeguatezza è fortemente influenzata dalla sensibilità delle figure di riferimento ai segnali del bambino secondo uno schema del genere (Bretherton):

 

  • sensibilità – sicurezza (attaccamento B)
  • insensibilità – evitamento (attaccamento A)
  • mutevolezza bizzarra – ambivalenza (attaccamento C)
  • maltrattamento – disorganizzazione psicotica (attaccamento D).

 

La strutturazione della sezione degli indicatori di rischio nei due livelli della relazione madre-figlio e di quella padre-figlio è funzione inoltre della verifica separata della qualità dell’accudimento, poiché è possibile che il bambino abbia una forma di attaccamento D con uno solo dei genitori (Liotti) e questo rappresenta una risorsa importante su cui fare forza nel processo di trattamento.

Il protocollo si conclude quindi con la sezione dedicata agli indicatori di rischio rintracciabili nel bambino e nelle caratteristiche di questo che, relativamente alla fase del ciclo vitale, possono mettere in crisi le competenze genitoriali di protezione, vigilanza, responsabilità, sicurezza, regolazione psicofisiologica, empatia.

Le caratteristiche del bambino che possono produrre disfunzioni importanti nella relazione di accudimento-allevamento, fino a concorrere nel determinare l’abuso, sono legate ancora una volta all’andamento della gravidanza, alle condizioni neonatali, alla presenza di patologie pediatriche, a disturbi delle condotte in generale.

Il rilevamento di queste caratteristiche e della loro qualità è molto importante poiché esse fanno sentire il loro peso sulle dinamiche dell’abuso in modo proporzionale al fatto che si tratti di turbe, ovvero alterazioni passeggere di un equilibrio psicofisiologico, perturbazioni che sono espressione di un inappropriata regolazione oppure sindromi, cioè disturbi strutturati della nutrizione, del sonno, dello scambio affettivo, del controllo, della differenziazione sessuale (Sameroff – Emde).

Concludendo, è bene sottolineare come l’utilizzazione del protocollo consenta, oltre al rilevamento dei fattori di rischio, il controllo della fase terapeutica alla quale la diagnostica è orientata, consentendo agli operatori l’accurata valutazione della trattabilità e l’eventuale organizzazione di un intervento integrato di vari percorsi clinici.

Questo in considerazione del fatto, che, pur escludendo forme di trattamento coatto ovvero interventi di allontanamento del minore, il trattamento individuale e quello familiare, ancorché necessari, possono non essere bastevoli a colmare certe situazioni di disagio sul piano socio-ambientale e, sul piano clinico, considerando gli obiettivi di ristrutturazione del mondo interno, di riparazione della scissione tra realtà e fantasia, di ricostruzione della fiducia nella possibilità di relazioni affettive non minacciose e flessibili nella esperienza del bambino abusato, non sono sufficienti separatamente perché i danni siano sanati.