L’intervento psicologico nei casi di maltrattamento ai bambini
Articolo scritto dalla Prof.ssa Paola Di Biasio
L’intervento clinico nell’ambito dei servizi pubblici ormai dotato di tecniche raffinate e sperimentate in anni di pratica e di riflessione teorica, si imbatte in ostacoli insuperabili ogniqualvolta vengano a mancare quelle specifiche e irrinunciabili condizioni che ne consentano l’applicazione. Ogni volta, cioè, che il paziente, l’utente o la famiglia, nonostante il disagio, le difficoltà o la patologia, si sottraggano all’intervento, non appaiano motivati, non richiedano esplicitamente un aiuto o, infine, non si mostrino capaci di riconoscere il proprio disagio o quello di un figlio.
Ebbene tutti questi ostacoli rappresentano altrettante costanti nei casi in cui una famiglia viva al proprio interno la drammatica “patologia” connessa alla violenza, al maltrattamento e all’abuso che si esprime in atti o omissioni tali da danneggiare gravemente i figli.
Sebbene in passato si sia troppo spesso ignorato il problema acconsentendo che molti bambini vivessero drammatiche esperienze non senza ripercussioni nella loro vita adulta, oggi la necessità di intervenire è motivata sul piano psicologico dalla consapevolezza ormai consolidata delle: a) conseguenze negative della violenza a breve e a lungo termine; b) dalla presenza del cosiddetto ciclo ripetitivo dell’abuso, vale a dire del rischio che manifestazioni di questo tipo si ripetano di generazione in generazione.
Ma, la famiglia maltrattante come dicevamo, non riconosce né ammette la sofferenza che l’attraversa, si ritrae di fronte alle pressioni dei servizi pronta a negare anche l’evidenza. D’altronde sarebbe impensabile attendersi una ammissione o addirittura una richiesta di aiuto da chi non può non sapere di aver travalicato i limiti non solo della responsabilità personale e genitoriale, ma anche di quella giuridica.
Riconoscere il proprio comportamento maltrattante equivarrebbe, infatti, a denunciare di aver violato norme di condotta sociali e sancite dalla legge.
Situazioni di questo tipo potrebbero, allora, essere giudicate inidonee ad un intervento clinico e relegate in un ambiguo spazio di pertinenza di alcuni o di un insieme di operatori dell’area assistenziale, educativa o giuridica. L’esigenza di tutela del bambino potrebbe anch’essa venire garantita attraverso l’allontanamento dalla famiglia, oppure grazie sostegni e controlli di tipo sociale, scolastico e laddove necessario, anche psicologici.
Ma sia nell’uno che nell’altro caso si tratta di misure largamente insoddisfacenti, frutto di un pregiudizio aprioristico che fa coincidere la irrecuperabilità della famiglia con la impossibilità degli operatori di trattarla sul piano clinico e dall’altro di un intervento parziale di protezione del bambino attuato con misure provvisorie e precarie che comunque non garantiscono il suo diritto a veder salvaguarda la possibilità di vivere con i propri genitori, e di poter ristabilire con loro, laddove sia possibile, un rapporto soddisfacente.
È necessario che gli operatori possano elaborare interventi capaci di coniugare la tutela del bambino con il trattamento psicologico della famiglia, di integrare le esigenze giuridiche con quelle socio-assistenziali, per superare la pericolosa alternativa tra semplice criminalizzazione del genitore e indifferenza verso le vittime di abuso.
Alcuni nodi problematici
In presenza di violenza familiare, l’esigenza fortemente sentita dagli operatori è di potersi confrontare con modelli di intervento complessi e articolati che forniscano indicazioni su come individuare le situazioni familiari “a rischio”, quando e in che modo segnalare all’ autorità competente, con quali modalità operative realizzare l’integrazione inter-istituzionale (servizi socio-sanitari, Tribunale, scuole, ospedali, forze dell’ordine ecc), come conciliare la tutela giuridica con la protezione della vittima; come affrontare la crisi familiare sottesa alla violenza per salvaguardare, laddove sia possibile, i diritti del bambino e dei genitori a ricostituire legami affettivi positivi, quali misure adottare nei casi in cui la famiglia d’origine sia irrecuperabile.
Come è ovvio si tratta non solo di quesiti diversi, ma di fasi di un processo scandito in sequenze temporali gerarchicamente organizzate in virtù delle loro diverse priorità.
Una prima esigenza a cui è eticamente e giuridicamente impossibile sottrarsi riguarda la protezione e la tutela del bambino e implica la necessità di individuare le situazioni di pregiudizio o quelle che necessitano un intervento immediato e urgente e nel segnalarle all’autorità competente. Successivamente e solo all’interno di una cornice giuridicamente chiara si impone la seconda importante esigenza che è quella di affrontare le dinamiche familiari psicopatologiche sottese alla violenza per capirle, attraverso una valutazione diagnostica, e se possibile per modificarle attivando cambiamenti idonei a fornire indicazioni prognostiche.
La funzione degli operatori con competenze psicologiche ha una notevole importanza in molte tappe dell’intero processo e copre spazi di intervento certamente più ampi e più dilatati di quelli del consulente tecnico d’ufficio (perito) che instaura con il Magistrato una collaborazione limitata nel tempo e con un obiettivo ben definito. Viceversa in queste situazioni allo psicologo spesso vengono posti quesiti che vanno oltre la richiesta di valutare la idoneità educativa dei genitori e che vertono sull’accertamento del danno subìto dai minori, sulla spiegazione delle cause e delle dinamiche sottostanti la violenza, su eventuali spazi di recuperabilità della famiglia d’origine e su indicazioni prognostiche circa il ripetersi o meno della dinamica maltrattante o trascurante.
Un primo nodo problematico, nasce certamente dalla complessità di queste situazioni che per essere capite ed efficacemente affrontate richiedono immediatamente una chiara delimitazione del quesito posto dal magistrato allo psicologo.
Un equivoco paralizzante potrebbe prodursi allorquando dietro la generica formula “valutazione delle caratteristiche di personalità del genitore o dei minori” oppure “valutazione delle relazioni familiari” si celi una implicita richiesta del magistrato di ottenere elementi utili per accertare la reale consistenza di fatti o eventi sui quali mancano prove certe.
In questo caso gli utenti ignari dei dubbi che gravano su di loro potrebbero essere indotti a sottoporsi ad una valutazione psicologica a volte genericamente definita, altre volte ambiguamente presentata come un aiuto e un sostegno. Lo psicologo si troverebbe così continuamente e inutilmente ad oscillare da un contesto di accertamento a uno di aiuto senza riuscire a formulare una valutazione e il magistrato a sua volta, dalle informazioni ottenute, non potrà decidere se attuare provvedimenti di tutela del minore da genitori inadeguati o provvedimenti di sostegno e aiuto per una famiglia sostanzialmente idonea, ma momentaneamente in crisi. In tal modo la relazione tra la famiglia, lo psicologo e il magistrato si avvierebbe a partire dal non detto, sviluppandosi sul filo «di un equivoco che non consentirebbe al professionista di cogliere quali siano gli elementi della situazione familiare effettivamente rilevanti, ai fini diagnostici, né, ovviamente, di comprendere se esistano reali rischi per i minori.
Una parte consistente del lavoro di collegamento tra le varie professionalità dovrebbe proprio consistere in una preliminare decisione sulle modalità di formulazione del quesito. Laddove gli elementi pervenuti al magistrato, pur nella necessità di intervenire secondo le indicazioni della legislazione, definiscano un quadro nel quale confluiscono poche certezze e molti dubbi di rischio per il minore si potrebbe configurare uno spazio di collaborazione in chiave di accertamento, chiaramente definito non solo agli occhi degli operatori ma soprattutto degli stessi utenti.
In altri casi, invece, in cui la responsabilità dell’adulto è già stata definita con o senza l’aiuto di esperti di discipline psicologiche (non solo nei termini di responsabilità giuridica degli adulti ai fini della commissione di una eventuale pena, bensì anche sul piano dei doveri e degli obblighi connessi alle funzioni di genitori), i quesiti, potranno ragionevolmente vertere sulle ragioni che hanno determinato la violenza (diagnosi), sulle indicazioni prognostiche o sulla individuazione di programmi idonei al minore e alla sua famiglia.
Definito il quadro istituzionale e il quesito che il Tribunale rivolge agli specialisti, la famiglia viene a trovarsi in un contesto coatto e prescrittivo al quale difficilmente può sottrarsi e che fa da cornice all’intervento diagnostico e prognostico attuato dai professionisti delle discipline psicologiche.
La valutazione di recuperabilità
È in questa fase nodale che si gioca la possibilità di innescare nella famiglia una serie di cambiamenti atti a prefigurarne il recupero.
Ma allo stesso tempo è in gioco la professionalità dello psicologo clinico che abituato a considerare la possibilità di cambiamento funzione della motivazione e della spontanea richiesta di aiuto da parte dell’utente, può rispondere alla sfida solo modificando, o meglio adeguando il suo apparato clinico ad una casistica considerata tradizionalmente non trattabile.
D’altronde, alla diffusione capillare della psicologia si accompagna l’emergere di domande multiformi, sfaccettate, che non possono essere semplicisticamente incanalate in prassi operative standard, ottimali e funzionali solo in astratto o in certe particolari condizioni quali ad esempio quella dello studio privato.
Eppure le energie di molti operatori sono spese nel tentativo di ricreare nei contesti pubblici, quelle condizioni ideali proprie della pratica privata. In assenza di una richiesta spontanea di aiuto si cercherà di ricreare le condizioni per permettere l’instaurarsi di un rapporto di fiducia e di collaborazione, nella convinzione che solo così sia possibile far emergere le vere motivazioni e comprendere gli autentici problemi degli utenti.
Nella nostra iniziale esperienza di lavoro con nuclei maltrattanti abbiamo constatato come il clima di collaborazione (nei fatti una apparente fiducia e collaborazione) fosse possibile solo a patto di colludere con la negazione e la minimizzazione degli episodi di maltrattamento. Gran parte delle famiglie, infatti, era ben contenta di discutere su qualunque argomento, a patto che venisse rispettato l’implicito accordo di non toccare il doloroso tasto del maltrattamento. Abbiamo dovuto così abbandonare l’assurda aspirazione di pretendere a tutti i costi la spontaneità e la fiducia all’interno di un contesto prescrittivo.
Si può correre anche il rischio opposto che è quello di assumere un atteggiamento inquisitorio e poliziesco per far sì che vengano, a tutti i costi ammessi e riconosciuti gli episodi di violenza. Abbiamo notato che, così facendo, la famiglia finisce per trasformarsi in una controparte sottoposta a giudizio con la quale si instaura, spesso, un rapporto di sfida, più o meno coperta, che o esaspera la negazione del maltrattamento, o quando quest’ultimo viene ammesso, sollecita tra i coniugi accuse reciproche e colpevolizzazioni.
La famiglia, in altri termini, finisce per accentuare proprio quei pattern disfunzionali che sostengono la crisi all’origine della violenza.
Il problema, tutt’altro che facile, è quello di riuscire ad evitare la tenaglia dell’atteggiamento collusivo e di quello inquisitorio cercando, di far penetrare alla comprensione della famiglia resistenza di una possibilità di chiarimento psicologico scevra da manipolazioni, connivenze e giudizi.
La definizione di un contesto coatto non elimina il rischio di assumere una posizione clinicamente inadeguata, ma può contribuire a ridurla nella misura in cui esime lo psicologo dall’assumere un atteggiamento inquisitorio. È evidente, che non è certo la coazione a curare i problemi connessi alla violenza, ma, piuttosto, il fatto che la famiglia possa venire a contatto con esperti che, pur non colludendo in alcun modo con essa, comprendono e mostrano di comprendete con precisione le vicissitudini drammatiche che attraversano.
Vicissitudini che comunque gli stessi membri della famiglia (alcuni di essa più di altri) ritengono a volte così riprovevoli da doverli nascondere con la massima reticenza. Ed è solo la conoscenza delle specifiche modalità con cui la famiglia affronta questo tipo di problema, anziché patteggiamento inquisitorio o giudicante, che distingue e differenzia lo psicologo clinico dal poliziotto o dal giudice.
Una volta superata sia una posizione poliziesca sia la pretesa di trattare la famiglia come se spontaneamente chiedesse di essere aiutata, sorge immediatamente un ulteriore problema. Come condurre e come impostare la valutazione, come comprendere le ragioni della crisi e del maltrattamento senza colludere con la negazione e le resistenze della famiglia? E ancora, quale valore e quale significato attribuire alle affermazioni di persone che coattivamente devono sottoporsi ad una diagnosi? *
Come abbiamo già illustrato più estesamente in altra sede (Cirillo & Di Biasio 1989), l’approccio diagnostico in situazione prescrittiva potrebbe essere assimilato al concetto di “dialogo sperimentale’’ che, come affermano Prigogine & Stengers (1981) a proposito delle impostazione scientifica «non vuol dire solo fedele osservazione di fatti così come accadono e nemmeno semplice ricerca di connessioni tra i fenomeni, ma presuppone una interazione sistematica tra concetti teorici e osservazione» includendo «sia la comprensione sia la modificazione dei fenomeni oggetto di studio» (p. 7)
Il dialogo sperimentale, inoltre, non suppone certo una osservazione passiva, ma una pratica i cui risultati acquistano significato solo se riferiti ad una ipotesi concernente i principi ai quali i processi sono presumibilmente riferiti (cfr. p. 41).
L’applicazione di questi principi alla situazione di diagnosi può consentire di uscire dalla soggettività della valutazione, che verrebbe così riferita a criteri intersoggettivi espliciti e condivisi dalla famiglia; criteri nei quali verrebbero a confluire sia il livello di comprensione che quello di modificazione e di cambiamento.
Avviene allora che nella impostazione diagnostica di famiglie seguite presso il Centro per il Bambino Maltrattato (CBM), non ci accontentiamo di osservare e registrare in senso fotografico la dinamica relazionale che caratterizza la famiglia, ma attivamente ed esplicitamente introduciamo input che sollecitino dei cambiamenti e dei movimenti. Il diagnosta, in altri termini, formula, insieme agli altri membri dell’équipe, una o più ipotesi sulla dinamica familiare che sostiene e ha provocato la violenza.
Se l’ipotesi trova conferma empirica nelle affermazioni della famiglia, e se viene da questa condivisa, si raggiunge un primo livello di comprensione: condizione necessaria, ma non sufficiente a innescare un cambiamento. Solo la connessione tra il livello teorico e quello dell’azione concretamente attuata conferma ai nostri occhi (e a quelli della famiglia) la veridicità delle supposizioni sull’intricato e complesso viluppo di relazione nel quale sono invischiati i membri e, soprattutto, prova la capacità della famiglia di interromperlo o no.
Nel caso di una famiglia che chiameremo Bianchi, nella quale il padre aveva ripetutamente e rabbiosamente picchiato il figlio di sei anni, mandandolo a scuola pieno di lividi, una delle nostre prime e più semplici ipotesi condivisa dalla famiglia, si fondava sull’aver evidenziato come le esplosioni di ira fossero attivate dalla profonda sensazione di impotenza generata dalla convinzione che la reale funzione affettiva e normativa fosse attribuita, dalla moglie e anche dal figlio, al nonno materno, uomo capace di farsi valere e di imporsi quasi naturalmente.
Alla conferma verbale di questa ipotesi fornitaci dallo famiglia, non seguirono però cambiamenti tali da modificare realmente questa modalità relazionale. Al contrario, le informazioni che raccogliemmo, sia in seduta sia dal controllo del servizio sociale, ci segnalavano il persistere immutato della coalizione fra il nonno e la madre del bambino. Solo alla luce di ulteriori approfondimenti sulle ragioni più profonde di tali legami, la moglie cominciò a comprendere il fascino che esercitava su di lei suo padre e a trovare il coraggio per proteggere lo spazio educativo col figlio, e contemporaneamente il marito intuì l’inutilità di esprimere la sua gelosia per la moglie in forma di ira verso il figlio e a sua volta iniziò a ricostruire una relazione diversa con entrambi.
Nella diagnosi in situazione coatta il ruolo dell’esperto non può limitarsi a quello di semplice osservatore:
egli deve proporre alla famiglia “giochi” diversi e diverse alternative di comportamento. Se non è in grado di farlo, sarà coinvolto dalle dinamiche inconsapevoli della famiglia stessa che gli imporrà le proprie modalità organizzative.
Si tratta, comunque, di famiglie che, in qualche modo dovranno comunque riorganizzare i propri pattern interattivi.
Il timore di perdere i figli, oltreché il desiderio di riconquistare una credibilità sociale come famiglia, e di riacquistare uno spazio di privacy esente dal controllo del Tribunale e da quello dei servizi sociali, costituiscono potenti spinte al cambiamento, di entità certo non inferiore alla motivazione che sostiene la richiesta spontanea di aiuto.
Ma se la famiglia viene lasciata a sé stessa, i pattern disfunzionali sottesi alla dinamica maltrattante si modificheranno sì, ma solo in modo superficiale.
Si può anzi aggiungere che tendenzialmente le stesse misure esterne messe in atto dai Servizi e dal Tribunale per arginare o eliminare i rischi di maltrattamento, verranno utilizzate e inglobate per riproporre, sotto mutate spoglie, rapporti analoghi a quelli sottesi alla crisi che aveva scatenato la violenza. Da qui il rischio di cronicizzazione, può essere concettualizzato come il consolidamento di relazioni disfunzionale che coinvolgono un numero sempre più elevato di attori (interni ed esterni al nucleo).
Add Comment