Problematiche connesse all’uso del segreto professionale in una comunità terapeutica per tossicodipendenti

Articolo pubblicato su “Acta Psychologica”, N.3 – 2/95

Autore: Onofrio Casciani

 

 

In una relazione terapeutica, o più genericamente «di aiuto», lo psicologo è il depositario delle esperienze, dei pensieri, dei vissuti di una persona sofferente psicologicamente.

Il rapporto di fiducia tra chi chiede aiuto e chi lo offre, è dato solo in parte (spesso per i significati di ordine culturale attribuiti al ruolo dello psicologo), ed in genere si crea sulla base di un patto, o meglio di un contratto.

In questo contratto, al di là degli obblighi di legge (vedi art. 622 cod. pen.) è prevista la garanzia, da parte dello psicologo, della massima riservatezza e custodia dei contenuti emersi nella relazione terapeutica, a tutela della sfera privata del paziente.

Se in un setting terapeutico classico, quale può essere lo studio privato dello psicologo, o quello del servizio pubblico, il contratto con Putente (paziente) può rivelarsi relativamente semplice, in un contesto complesso, articolato e in un certo senso «nuovo» come la Comunità Terapeutica per tossicodipendenti, lo stabilirsi di detto contratto e la garanzia della riservatezza pongono alcuni interrogativi.

Cerchiamo di capire innanzitutto quali sono le differenze significative tra una Comunità Terapeutica ed il setting terapeutico classico: la comunità terapeutica è una delle possibili espressioni, in senso lato, l’approccio cosiddetto «multimodale», poiché l’azione terapeutica si svolge a diversi livelli (emotivo-affettivo, cognitivo, relazionale, comportamentale) ed utilizza pressoché tutti i momenti della vita di gruppo, tecniche e strumenti diversi, ma integrati tra di loro e convergenti verso lo stesso obiettivo.

La comunità ha la sua potenzialità terapeutica nello svolgimento delle funzioni genitoriali, quella di accoglimento ed accettazione della persona, dei suoi bisogni e dei suoi problemi, e quella normativa, di guida e di autorità morale.

Lo psicologo all’interno di questo contesto svolge un ruolo assai più complesso che in altri ambiti più classici, derivando il ruolo stesso dalla integrazione delle due funzioni di cui sopra, della funzione di controllo, implicita ed inevitabile in una struttura di contenimento, e delle attribuzioni (proiezioni) dell’ospite.

L’operatore psicologo, per poter svolgere le sue funzioni, deve essere pienamente inserito nella vita di gruppo, se pur con ruolo e modalità diverse dagli utenti, e gradualmente, secondo un processo che assomiglia di più a quello naturale che a quello tipico del rapporto terapeuta-paziente, viene a conoscenza della storia personale e psicopatologica dell’ospite.

Gran parte di questo materiale è patrimonio di tutto il gruppo, che può utilizzarlo per le proprie personali elaborazioni.

Ma può accadere che all’operatore venga confidato, ad un dato momento del percorso terapeutico, qualcosa che non viene ritenuto dal soggetto condivisibile per diverse ragioni (morali, psicologiche, sociali, pratiche ecc.) con il resto del gruppo ma che costituisce tuttavia una fonte di enorme pressione emotiva.

Questo può talvolta derivare proprio dal clima positivo di fiducia e di contenimento emotivo, nonché dall’autorevolezza (carisma) dello staff e della struttura. Può essere inoltre l’espressione del progredire della persona verso l’allentamento delle difese, e quindi verso una maggiore disponibilità a mutare atteggiamenti, concetto di sé, e stile di vita, inteso come stile di risposta alle impasse psicologiche ed esistenziali.

All’operatore spetta l’onere di gestire in maniera appropriata la conoscenza di aspetti delicati della vita del soggetto, sia nei rapporti con il resto dello staff che con gli altri utenti.

Un altro particolare di primaria importanza e caratteristico di alcune comunità terapeutiche è la presenza di un setting ben definito, il gruppo di psicoterapia, al quale partecipa solo una parte degli ospiti della Comunità, all’interno di un altro setting altrettanto ben definito che è la quotidianità della vita comunitaria con tutti i suoi momenti tipici.

Questa compresenza di due setting diversi, l’uno contenuto nell’altro, comporta alcuni problemi, come la gestione nel gruppo allargato, del materiale che emerge nella psicoterapia, sia per quanto riguarda le comunicazioni tra utenti della struttura che tra lo psicoterapeuta e i colleghi psicologi.

In questo caso sorgono i seguenti interrogativi:

  • lo psicoterapeuta, essendo vincolato al segreto professionale, può riferire al resto dello staff contenuti emersi durante la psicoterapia?
  • | membri del gruppo di psicoterapia, non essendo vincolati al segreto professionale, in che mòdo possono garantire la riservatezza richiesta, e come si può evitare che compromettano quella dello psicoterapeuta, garantita all’utente dal quale ha ricevuto la confidenza?

In un contesto come quello della comunità terapeutica residenziale possono presentarsi all’incirca quattro situazioni:

  1. il singolo ospite mette a conoscenza tutto il gruppo, operatori compresi, di una esperienza personale dalle forti implicazioni emotive, morali, penali ecc. e chiede che non siano assolutamente diffuse (episodi di violenza carnale subita, o effettuata, o reati penali gravi);
  2. il singolo ospite rivela ad un operatore, spesso uno psicologo, aspetti estremamente coinvolgenti della sua storia passata (il più delle volte per liberarsi di un peso diventato enorme ed insostenibile), e gli chiede di non rivelarlo ad altri;
  3. un ospite rivela solo allo psicoterapeuta qualcosa che desidera rimanga sconosciuto ad altri;
  4. un ospite rivela al gruppo di psicoterapia cose di grande importanza (es. a livello penale);

Nel primo caso si pongono i seguenti interrogativi:

  • è opportuno, da parte di un operatore che ha la responsabilità professionale ed etica, in un caso di reato penale grave, accettare la richiesta di segreto, che può talora configurarsi come richiesta di complicità?
  • è opportuno in una situazione di impasse psicologica di questo tipo condizionare l’intero gruppo ad una scelta, e quanto l’orientamento del gruppo stesso o di una parte di questo potrebbe risultare condizionante per l’operatore?
  • se l’operatore decidesse di rifiutarsi, si avrebbe una ricaduta a livello di relazione terapeutica?
  • quale tipo di intervento alternativo si potrebbe, a salvaguardia di una corretta deontologia professionale?

Nel secondo caso, gli interrogativi sono pressoché gli stessi, ma la complessità della situazione è ridotta per il fatto che i soggetti coinvolti sono soltanto due: l’operatore e il paziente.

Nel terzo caso, la situazione si fa più complessa, perché di un determinato fatto viene messo a conoscenza lo psicoterapeuta, e il problema si pone rispetto all’uso che il terapeuta fa di questa conoscenza con il resto dello staff.

  • In questi due casi, fino a che punto lo psicologo e il terapeuta sono autorizzati a trattare il tema confidato con il resto dello staff, che è tuttavia vincolato al segreto professionale?

Nel quarto caso si pone invece il problema della gestione del segreto con una parte del gruppo degli ospiti.

L’equipe delle Comunità Terapeutiche del Comune di Roma, lungi dall’aver risolto definitivamente le questioni poste poc’anzi, si è operativamente orientata nel seguente modo: a garanzia della riservatezza dei contenuti che emergono dalla psicoterapia di gruppo, esiste la regola, considerata estremamente importante ed anzi irrinunciabile che ciò che emerge in quel contesto non debba varcare la soglia del contesto stesso, se non con il consenso di tutti. Questa regola è parte integrante del contratto di psicoterapia, e l’inosservanza di tale impegno comporta la rottura del contratto stesso;

  • è sempre nel contratto terapeutico che vengono stabiliti, in via generale, i limiti della garanzia di riservatezza data agli ospiti della struttura; ed in genere è stabilito ed accettato in partenza che il singolo operatore o lo psicoterapeuta discutano con i colleghi dei contenuti emersi negli incontri; in altre parole è chiaro a tutti che le cose di cui è a conoscenza un singolo operatore sono discusse con tutto lo staff, comunque vincolato al segreto professionale;
  • il commettere un reato che in qualche modo si contrappone agli impegni presi nel contratto terapeutico iniziale, è motivo di svincolo dal segreto professionale stesso da parte dello psicologo (es. commettere un reato durante la fase di presa in carico: furto, violenza, detenzione di droga, psicofarmaci ecc.);

 

 

  • un reato commesso precedentemente alla presa in carico del soggetto non rappresenta necessariamente per lo psicologo un dovere di denuncia in quanto l’impegno che si han nei suoi confronti è relativo ai problemi da esso presentati. Inoltre, la funzione di controllo o di repressione che in una denuncia inevitabilmente si esprime, inquinerebbe pericolosamente la relazione terapeutica;

lo psicologo ha l’impegno di curare il processo terapeutico che ha tempi e modalità non necessariamente coincidenti con quello della legge;

  • in genere viene sempre comunque svolto un lavoro di sostegno psicologico e di acquisizione di consapevolezza volto a rendere la persona in grado di assumersi la responsabilità anche di quelle azioni che rivestono significato penale, se ciò risulta essere coerente con il progetto psicosocio- riabilitativo.

Nel complesso ambito della Comunità Terapeutica lo psicologo non si ritiene vincolato ad un segreto rivelato scorrettamente, di sorpresa, o in cui è evidente la ricerca di complicità.

Un altro ambito di estrema delicatezza e complessità, dalle numerose implicazioni morali e psicologiche, è la gestione della condizione di sieropositività di alcuni soggetti.

La posizione dell’equipe è in genere di chiedere di essere messa a conoscenza di tale eventualità a tutela della salute degli altri, e di favorire la condivisione del problema per le stesse ragioni di prevenzione del contagio, ma anche per la grande valenza psicologica che tale condivisione comporta.

Tuttavia è necessario, per la legge e per il rispetto dei diritti della persona, il consenso dell’ospite, sia per le eventuali comunicazioni della condizione di sieropositività che per i controlli clinici di routine.

Accade che un residente riveli non solo la sua condizione di sieropositivo, ma anche il fatto di aver nascosto tale condizione a persone con le quali ha contatti a rischio e che necessitano quindi di accorgimenti preventivi (es. il partner). U lavoro dell’equipe è di orientare l’elaborazione del problema verso una responsabilizzazione del soggetto e quindi verso la decisione di informare adeguatamente le persone interessate.

Più difficile risulta essere nei fatti, al di là della scelta dell’equipe, il mantenimento del segreto con il personale ospedaliero (infermiere, odontoiatria, ecc.); dette figure comprensibilmente richiedono una puntuale informazione a scopo di prevenzione, ma l’esperienza nel rapporto con questi contesti mostra la difficoltà del rispetto dei vincoli del segreto professionale.

Si potrebbe generalizzare che ciò è più vero, per intuibili motivi, nelle realtà di provincia che in quelle urbane.

Altro aspetto di non facile gestione è il mantenimento del segreto di contenuti che emergono quel lavoro residenziale nei confronti della famiglia. I contatti che i familiari hanno con i residenti ogni 15 giorni comporta la comunicazione, spesso distorta, di informazioni, da parte di altri residenti.

Il lavoro che in parallelo viene svolto con la famiglia comporta il verificarsi di momenti in cui i familiari non possono essere messi a conoscenza di alcuni fatti che riguardano il loro congiunto.

In pratica si tratta di rendere compatibili contratti effettuati con interlocutori diversi.

La scelta dell’equipe delle Comunità Terapeutiche del Comune di Roma è quella di rispettare sempre il segreto professionale, ma anche di non essere disponibile a raccogliere confidenze che non emergono dalla seduta di terapia familiare, nella consapevolezza dell’uso manipolatorio che spesso i pazienti tendono a fare di queste comunicazioni.

Il segreto può invece, in taluni casi, costituire una sorta di strategia terapeutica per rompere gli equilibri del sistema familiare rivelatosi ormai problematico (nuova alleanza di due membri).

Per svolgere efficacemente queste operazioni, ed in generale per la gestione di situazioni estremamente delicate che attengono al segreto professionale, è comunque indispensabile una corretta comunicazione tra i membri dell’equipe e una costante supervisione da parte di un terapeuta esterno allo staff.