La Psicologia del lavoro nelle strutture ospedaliere

Articolo pubblicato su “Acta Psychologica”, N.3 – 12/92

Autore: Giovanni Guerra

 

1 – Premessa

Mi propongo in questo intervento di esplorare da quale punto di vista e in quale misura l’ Ospedale costituisca un campo di operatività per lo psicologo del lavoro. La questione è molto attuale ed è interessante sottolineare che, senza dubbio, era ben difficile porsela fino a poco tempo fa: l’ Ospedale, infatti, era prima di tutto un “affare” dei medici. Quali sono le condizioni che oggi invece rendono possibile e realistico pensare all’ Ospedale come a un campo di ricerca e di intervento dello psicologo del lavoro? Rispondere a questa domanda richiede naturalmente un’ analisi dell’ Ospedale, che verrà proposta lungo i due assi dell’ analisi organizzativa e dell’ analisi istituzionale. Richiederà, inoltre, una precisazione del complesso rapporto tra medicina e psicologia.

Queste risposte, però, ci porteranno alla fine a ribaltare la domanda da cui partiamo, per diventare: perché in questa situazione di difficoltà e di cambiamento qualcuno sarebbe interessato a “comprare” una consulenza psicologica? Che cosa lo psicologo del lavoro è in grado di offrire? Per rispondere a queste domande bisogna avere delle ipotesi precise sul campo e sui metodi di intervento della psicologia del lavoro. Ed è intorno a questo tema che si concluderà questo contributo.

 

2 – Appunti sullOspedale come organizzazione e come istituzione

Cerchiamo di definire, prima di tutto, lo stato del dibattito sulla Sanità che è dominato da due grandi temi: la centralità continuamente riaffermata, per il nostro sistema sociale e politico, della difesa e della promozione della salute e il problema dei costi crescenti, sempre più gravosi e ormai quasi insostenibili per la collettività.

Il primo tema concerne le finalità della Sanità che sono ormai acquisite in modo tale che sembra difficile rinunciarvi senza rinunciare, nello stesso tempo, alle conquiste civili più significative e caratterizzanti la nostra società.

Il secondo tema, quello economico, si muove su un terreno all’ apparenza più limitato, ma il significato dei problemi sollevati è tale da mettere in discussione le possibilità stesse di sopravvivenza del welfare State e perciò dell’ erogazione di quei servizi che sono ormai diventati irrinunciabili.

A questi due temi, vanno aggiunte una sempre più vistosa insoddisfazione e una critica sempre più assidua alle disfunzioni e alle carenze del Servizio Sanitario nazionale. All’ interno di questa cornice, la questione dell ’ Ospedale assume un rilievo assolutamente centrale sia perché rappresenta il luogo sempre più caratteristico della pratica medica moderna (alta tecnologia, specializzazione sofisticata, lavoro di équipe ecc.) sia perché costituisce appunto la principale fonte di spesa del Servizio sanitario.

Per avviare un’analisi dell’ Ospedale può essere utile partire dalla classica differenziazione di Rhode tra i cicli medico, assistenziale e amministrativo individuati come elementi costitutivi dell’ Ospedale. Questa articolazione consente di individuare immediatamente anche due assi del conflitto organizzativo: quello gerarchico all’ interno di ciascun ciclo e quello orizzontale fra i tre cicli. Quest’ ultimo si caratterizza per il fatto che i tre cicli tendono a rappresentarsi come aventi finalità diverse, spesso viste anche come contraddittorie. Per esempio, le esigenze della cura e le esigenze economiche, portate avanti dal ciclo amministrativo e dal ciclo medico rispettivamente, perseguono delle strategie che facilmente tendono a scontrarsi. Inoltre, i tre cicli presentano gradi diversi di prestigio con conseguenti sentimenti di rivalità e di competizione che alimentano una diffusa conflittualità.

Si deve notare che l’analisi di Rhode, fondata sul concetto di “ciclo funzionale”, rinvia bene o male al concetto di professione come asse portante dell’ Ospedale. La cosa non è poi così ovvia nell’ analisi organizzativa. Il fatto organizzativo di per sé va contro l’ appartenenza al corpo professionale favorendo invece lo sviluppo dell’ appartenenza all’ organizzazione. Questa appartenenza extra-organizzativa è forte soprattutto per i medici, per i quali il metro di misura e di valutazione del proprio prodotto non si trova nell’ Ospedale ma nel riferimento al corpo professionale. Su questo riferimento si fonda il cruciale tema dell’ autonomia clinica, cioè la pretesa dei medici di sottrarsi ad ogni vincolo che non provenga dal sapere medico. Naturalmente questa rivendicazione di indipendenza appare a tutti gli altri attori sociali (oltre che agli studiosi della Sanità) come la fonte principale dei conflitti e, nello stesso tempo, delle resistenze al cambiamento. Nell’ autonomia clinica, ancora, sembrano radicarsi le difficoltà di integrazione e di coordinamento nonché la stessa impossibilità di affrontare in modo soddisfacente il tema della “produzione” dell’ Ospedale. In sintesi, si può dire che la centralità dei medici nel conflitto organizzativo, la rilevanza delle problematiche economiche e gestionali, gli sforzi di razionalizzazione, la difficoltà di introdurre dei cambiamenti in un sistema apparentemente monolitico, disegnano i nodi problematici più rilevanti dell’ Ospedale, nodi che tra l’altro si ritrovano in modo piuttosto condiviso in letteratura pur nella differenza dei punti di vista disciplinari.

Ci si può chiedere se sia possibile dare un senso alla centralità del ciclo medico e, più in generale, se sia possibile affrontare da una prospettiva unitaria problemi così diversi fra loro che sembrano richiedere tante soluzioni parziali. Si può cercare di rispondere affermativamente alla domanda introducendo il concetto di “istituzione” che definisce un livello della realtà sociale differente rispetto a quello organizzativo. Se quest’ ultimo è I’universo della razionalità, della progettualità, della consensualità e della contrattazione intorno agli obiettivi e ai metodi, della conflittualità che può esprimersi ed evolvere, I’ istituzione costituisce un universo dotato di un’ altra logica destinata a rispondere a bisogni difensivi connessi allo stabilirsi dei legami sociali necessari proprio al raggiungimento degli obiettivi produttivi. Si riconoscerà, in queste affermazioni, un esplicito riferimento alla concettualizzazione di E. Jaques sul funzionamento dei sistemi sociali. Posizione cui rimango vicino pur articolandola nel modo che dirò.

L’ipotesi che propongo (Guerra, 1992) è che la struttura dell’ Ospedale sia sovradeterminata dalle caratteristiche del sapere medico, inteso come asse istituzionale, e che pertanto la sua organizzazione risponda ad una logica ben precisa ancorché non immediatamente evidente.

Cercherò di chiarire due aspetti di questa ipotesi: la identificazione dell’ istituzione con il sapere e la relazione tra organizzazione e istituzione. Quanto al primo aspetto, ho più volte proposto I’ ipotesi che il desiderio di conoscere e di guarire che animano la medicina alimentino almeno tre specifiche sorgenti di ansietà connesse al desiderio di penetrare i segreti della vita e della morte, alla infrazione dell’ interdetto a penetrare nel corpo dell’ altro e infine, al contatto con la malattia e la morte.

Il sapere medico si sviluppa a partire da questa triplice sorgente di ansietà e ne diventa, nello stesso tempo, la specifica modalità di controllo. A contatto con il pulsionale e con I’ immaginario, la volontà di conoscere diventa istituzione nel momento in cui regola tale universo strutturandosi come “ordine del discorso”: accedere al sapere medico implica l’assunzione delle “regole” del discorso. Entrare, in questo senso, all’ interno dell’ istituzione implica | attivazione di processi formativi (cognitivi e identificatori) molto complessi e laboriosi, destinati a modificare profondamente il soggetto. Proprio la difficoltà dell’ accesso al sapere medico collabora ad alimentare sia l’ autonomia professionale sia quella sorta di indifferenza nei confronti di qualunque altro sapere così caratteristica della medicina. Va anche subito aggiunto che le difese non sono un elaborato individuale ma sono condivise da tutti i membri dell’ istituzione che sono legati tra loro proprio da tale condivisione – come appunto propone il concetto di istituzione formulato da Jaques.

I processi di formazione e di socializzazione all’ interno delle organizzazioni (l’ “apprendimento organizzativo”) sono costituiti fondamentalmente dalla interiorizzazione da parte del nuovo membro di quel sistema di difese che si trova già strutturato e legittimato socialmente e che, per così dire, viene messo a disposizione proprio per evitare le posizioni che risulterebbero meno funzionali ai fini produttivi. L’ assunzione dei meccanismi di difesa equivale all’ assunzione di categorie di costruzione della realtà proprie del gruppo professionale: progressivamente per il nuovo medico o per il nuovo infermiere sarà sempre più difficile vedere il malato, la malattia, l’ Ospedale in termini diversi da quelli istituzionali.

D’ altra parte, il punto problematico non è dato dalle difese ma dall’ invisibilità dell’ ansietà e delle difese. Naturalmente, nulla di per sé vieterebbe l’ elaborazione dell’ ansietà se non appunto il fatto che questa è invisibile. Dunque, più precisamente, il primo problema è costituito dalle difese che, riproducendosi ripetitivamente attraverso i processi formativi, presentano un mondo già dato, fisso, costruito secondo norme, regole, princìpi apparentemente intoccabili. Questo universo, saldamente ancorato alle difese istituzionali, risulta indiscusso e indiscutibile perché è letteralmente “impensabile”.

La traduzione concretamente visibile di questa forma di inibizione a pensare si ha nella sorprendente povertà del pensiero organizzativo nella rigidità delle posizioni e dei ruoli, nella fissità della struttura, nel clima di urgenza che domina l’ operatività, nella necessità di agire, di intervenire sul malato. Il tutto a fronte della straordinaria capacità di sviluppare invece un pensiero tecnico (diagnostico e terapeutico).

Passiamo così al secondo aspetto dell’ ipotesi che mi proponevo di chiarire: la relazione tra istituzione e organizzazione. L’ipotesi di lavoro è, dunque, che il sapere medico (nei suoi a ‘ersi aspetti: di conoscenza e di difesa) in quanto dimensione istituzionale si collochi al centro del funzionamento organizzativo costruendo un universo di ruoli, di posizioni, di discorsi talmente strutturato che chiunque vi entra si vede assegnata forzatamente una ben precisa collocazione.

Per un’ analisi dettagliata dell’ ipotesi, che qui ci impegnerebbe troppo a lungo, mi permetto di rinviare al mio libro Psicosociologia dell’Ospedale (1992). Mi soffermo, invece, su un tratto della relazione tra le due dimensioni istituzionale e organizzativa che è assolutamente tipico dell’ Ospedale e rappresenta un passaggio chiave nei processi di cambiamento.

A differenza di altre organizzazioni, è come se nell’ Ospedale la relativa autonomia delle due sfere non venisse mai osservata, ma ci fosse una sorta di “schiacciamento” dell’ organizzazione sull’ istituzione: i bisogni difensivi prevalgono sugli obiettivi organizzativi. Questa prevalenza finisce per vanificare le analisi e i progetti di cambiamento che non ne tengono conto.

A sostegno della tesi della prevalenza istituzionale, basta esaminare il problema dell’ organizzazione del lavoro. Se si considerano i due elementi che maggiormente favoriscono il cambiamento in questo àmbito: lo sviluppo tecnologico e il conflitto sociale, si può notare che essi sono presenti nell’ àmbito sanitario forse ancor più che altrove. Tuttavia i ruoli, la divisione dei compiti, il tipo di lavoro, il reparto stesso come cellula funzionale elementare che definisce un ambito lavorativo, non si sono significativamente modificati nelle loro caratteristiche strutturali.

L’ immobilismo organizzativo – ovvero la difficoltà di promuovere in concreto nuovi modelli organizzativi — è forse il problema più intrigante che si pone a chi studia l’ Ospedale. Nella prospettiva qui proposta, è un indicatore molto esplicito della pressione della dimensione istituzionale. Se non si coglie questo elemento, si rischia di insistere a descrivere modelli ideali che risultano assai frustranti in quanto sfuggono del tutto le ragioni del fallimento di progetti apparentemente tanto lucidi e razionali. Inoltre, al di là della frustrazione, tali proposte per la loro irrealtà producono nel personale medico e sanitario che ne viene interessato, un effetto reattivo di certo controproducente.

D’altra parte, proprio le caratteristiche di compattezza e di coerenza interna della realtà organizzativo/istituzionale indicano anche chiaramente il primo luogo dove intervenire per avviare dei cambiamenti. La domanda che si pone, infatti, è del tipo: come articolare il sistema Ospedale?

Possiamo interrompere qui l’ analisi dell’ Ospedale in quanto più che cercare di essere esauriente, mi premeva proporre le coordinate per un possibile intervento dello psicologo allo interno dell’ Ospedale. A questo punto e prima di definire la specificità dell’ intervento psicologico, mi sembra indispensabile proporre una digressione sul rapporto tra medicina e psicologia.

 

3 – La psicologia, la medicina e l’ Ospedale

L’ analisi ora proposta dice che l’ Ospedale è un luogo attraversato da tali conflitti e trasformazioni che anche ad uno sguardo superficiale può sembrare un terreno promettente di intervento psicologico. E senz’ altro lo è, se però si tengono a mente alcuni punti di orientamento. Prima di tutto appunto il rapporto tra psicologia, medicina e Ospedale che per tradizione non è certo dei più favorevoli.

La posizione della psicologia nei confronti della realtà ospedaliera è abbastanza complessa e articolata e va considerata in dettaglio perché la sua comprensione è preliminare a qualunque ipotesi di intervento. La questione del rapporto psicologia/Ospedale è, prima di tutto, una questione del rapporto tra i saperi psicologico e medico, che può assumere differenti forme, ora più conflittuali ora più integrate.

Una forma che rende subito difficile l’integrazione è quella che si fonda su una sorta di competizione che appare inevitabile se si considera che tanto la medicina quanto la psicologia si propongono entrambe di trattare la sofferenza del soggetto ma con metodi di lettura, strumenti di intervento, modelli interpretativi talmente differenti da divenire di fatto concorrenziali. Il conflitto non è tanto sul prevalere della componente psicologica o somatica della sofferenza, ma proprio sul modo di impostare la relazione di domanda/risposta e il modo di considerare le diverse variabili in gioco nella sofferenza: è una questione di modelli e di tecniche.

Al di fuori della competizione, il contributo più insistito della psicologia alla comprensione dell’ Ospedale ha ruotato prevalentemente intorno al problema della relazione medico/paziente, per via delle dimensioni psicologiche presenti. Si corrono però così due rischi: il primo, di ridurre la complessità della vicenda ospedaliera allo stretto rapporto duale; il secondo di alimentare la competizione di base di cui si è detto. Se infatti lo psicologo si propone come specifica- mente competente nel campo della relazionalità e della comunicazione, può pensare di avere delle cose da insegnare al medico. D’ altra parte, certamente anche il medico sente di essere altamente competente iuxta propria principia nel trattare la relazione con il paziente né potrebbe essere altrimenti. Da qui un invito agli psicologi ad essere cauti onde evitare il rischio dell’ intrusività (Cesa Bianchi & Sala, 1989), invito che se pur genericamente condivisibile rischia di evitare l’ esplorazione della complessa realtà della relazione medico/paziente e dei meccanismi in essa implicati. Più che di cautela, in verità, si tratta, a nostro avviso di riconoscere la specificità di modi di affrontare e di sostenere la relazione e i problemi istituzionali, che sono completamente differenti per i medici e gli psicologi.

Su una linea non molto lontana e, dunque con le stesse difficoltà, si trovano anche le aspettative nei confronti di un contributo significativo della psicologia alla cosiddetta “umanizzazione” dell’ Ospedale.

Anche questo tema, tuttavia, pone gli stessi problemi che si vedevano qui sopra e sembra piuttosto generatore di difficoltà, a partire dall’ uso stesso del termine che non è certo dei più felici. Infatti, a meno che non ci si riferisca specificamente alle condizioni alberghiere spesso davvero al limite del sopportabile, il termine “umanizzazione”, da una parte, può risultare improprio, in quanto i meccanismi di funzionamento dell’ Ospedale, rispondendo a delle motivazioni profonde, sono quanto mai umani; da un’ altra parte, comportando implicitamente comunque una nota di colpevolizzazione (« siete disumani! »), può risultare persino controproducente, rischiando di far sentire ancora più estranei alla realtà ospedaliera gli schemi di comportamento ideali che si intenderebbero promuovere (Bertini, 1989). Un’ altra forma ancora del rapporto psicologia/medicina è connesso alla presenza sempre più frequente di un Servizio di psicologia clinica all’ interno dell’ Ospedale. Intorno a questo tema, la vicenda diventa ancor più interessante perché apre la porta ad un nuovo universo di problemi introducendo anche la funzione dello psicologo del lavoro.

Infatti, se l’ utente più ovvio dello psicologo è il paziente ospedalizzato o ambulatoriale vuoi per domanda diretta del paziente stesso, collegata o meno che sia alla ragione del ricovero, vuoi per richiesta di consulenza da parte del medico curante, vi è tutta un’ altra utenza meno scontata ma altrettanto importante che appare alla ribalta: il personale ospedaliero stesso.

Per questa via, oltre ad inserirsi nel processo “produttivo” ospedaliero a fianco degli altri operatori, lo psicologo prestando attenzione anche alle modalità secondo cui si svolge il processo, apre un nuovo campo di lavoro.

Seguendo questo percorso, dunque, la psicologia arriva in modo naturale ad occuparsi dell’ Ospedale. Il che non sorprende perché di per sé la psicologia si interessa spontaneamente al contesto in cui opera, facendone oggetto di un’ indispensabile riflessione: sarebbe infatti ben sorprendente che lo psicologo non si curasse del contesto in cui lavora. Ma questa attenzione “spontanea” della psicologia al contesto, diventa proprio l’ oggetto specifico dello psicologo del lavoro nell’ ambito ospedaliero. In che modo? Con quali specificità?

 

4 – Lo psicologo del lavoro in Ospedale

L’ ipotesi — a questo punto ovvia — che sto proponendo, è che I oggetto di intervento specifico per lo psicologo del lavoro sia la complessa vicenda organizzativa e istituzionale dell’ Ospedale. Se oggi è possibile pensare ad un intervento dello psicologo del lavoro nell’ Ospedale, lo si deve anche ad una serie di circostanze che per altro bisogna saper individuare e cogliere con prontezza.

La situazione di crisi della Sanità è il contesto dentro il quale ci si deve collocare per pensare una strategia di intervento. La crisi si sviluppa soprattutto a partire dalla drammatica situazione economica ma può rappresentare, nello stesso tempo, un’ occasione piuttosto favorevole per un ripensamento dei molteplici e annosi problemi che attraversano la Sanità.

Se l’ analisi che abbiamo proposto coglie correttamente la situazione, descrivendo un sistema in cui la dimensione organizzativa è schiacciata su quella istituzionale, sembra ragionevole muoversi prima di tutto nella direzione di favorire un’ articolazione della realtà ospedaliera, cercando così di rispondere alla domanda che avevamo aperto concludendo l’ analisi dell’ Ospedale.

Su questa via, le ipotesi di lavoro che mi sembrano più interessanti sono almeno le seguenti tre (Guerra, 1992):

  • Il tema della valutazione.

La valutazione della qualità del lavoro è un problema che naturalmente le organizzazioni non possono evitare e in questi ultimi anni c’ è stata una diffusione sempre più incisiva sia della tematica sia di specifiche tecniche valutative. Va comunque tenuto presente che, in Ospedale, questa problematica si complica per il fatto che si deve tenere conto di valutazioni che non sono necessariamente congruenti ed univoche. Si possono distinguere infatti almeno tre processi valutativi: per i medici, per l’ amministrazione e per i pazienti, che vertono su oggetti diversi e che rispondono a criteri differenti in funzione della posizione di questi tre gruppi sociali. Ad esempio, la valutazione positiva del processo terapeutico dal punto di vista medico potrebbe accompagnarsi ad una valutazione negativa, da parte del paziente, a causa di cattive condizioni alberghiere o di insoddisfacenti rapporti con il personale e ad un’ altra valutazione negativa da parte dell’ amministrazione a causa dei costi. La possibilità di valutazioni così eterogenee eppure tutte legittime, inoltre, apre il problema di individuare un luogo di ulteriore elaborazione delle differenti valutazioni. Il che porta ad una seconda area di intervento.

– 2. Il tema dell’ integrazione e del coordinamento.

II problema della valutazione non è certo F unica via che conduce al cruciale problema della integrazione dell’ Ospedale. Forse ancor prima, il problema si pone in relazione a due assi: uno esterno ed uno interno. Nel quadro del Servizio sanitario, l’ Ospedale si colloca all’ interno di un territorio rispetto al quale dovrebbe rappresentare una maglia della rete di presìdi, certamente specifica ed importante ma non autonoma. Si tratta, dunque, su questo versante di definire i confini dell’ Ospedale e la loro funzionalità nonché il raccordo con le strutture del territorio. Da un’ altra parte, il problema deir integrazione si pone anche in modo molto chiaro all’ interno della struttura ospedaliera dove si assiste ad una differenziazione sempre più spinta. Non possiamo entrare qui nel merito delle ragioni della differenziazione, ma possiamo dire che si ricollegano allo sviluppo del sapere medico e, in quanto tali, tendono a sfuggire a torme di controllo esterne allo stesso sapere. Con il che, per altro, il problema non è certo liquidato ma rimane come in attesa della possibilità di essere trattato al di fuori delle determinanti istituzionali.

– 3. Il tema della progettazione delle professionalità.

L’ipotesi di lavoro intorno a questa a- rea si definisce a partire da una considerazione su uno degli elementi fondanti la professionalità (Di Ninni, 1989): la capacità appunto di un gruppo professionale di sviluppare una conoscenza autoriflessiva sulla professione stessa, sui cambiamenti cui va incontro, sul mondo che circonda la professione. Ricordiamo che una rappresentazione fortemente condivisa dell’ O- spedale è proprio quella che lo vede come lo scenario nel quale si muovono alcune professioni: medica, infermieristica e amministrativa.

Se, da una parte, questa rappresentazione ripropone il già citato problema della integrazione, dall’ altra essa solleva anche un interrogativo sulla capacità delle diverse professioni di riprogettare il senso della loro azione in accordo con l’ aumentata complessità tecnica, amministrativa e organizzativa e con i cambiamenti culturali in atto. In questo senso, potremmo dire che si presenta la necessità di lavorare per lo sviluppo delle professioni. H che vuol dire, per riprendere i termini utilizzati sopra, aiutare le diverse professioni a riflettere sui vincoli istituzionali.

E’ ragionevole pensare che il lavoro su queste tre aree possa favorire i processi di cambiamento organizzativo tesi ad un miglioramento dell’ efficacia e dell’ efficienza dell’ Ospedale. Non è certo il caso di elencare le possibili attività che lo psicologo del lavoro può intraprendere intorno a questi temi: formazione, selezione, progettazione organizzativa, consulenza alle équipe etc. Non è il caso sia perché sarebbe una lista più o meno banale sia per un’ altra ragione sostanziale: per la ragione, cioè, che intervenire in una situazione così complessa come quella dell’ Ospedale (come, beninteso, anche in qualunque altra organizzazione) richiede allo psicologo del lavoro la consapevolezza del senso del suo operare, una buona fondazione non solo epistemologica ma tecnica dell’ intervento organizzativo. In effetti, proprio ad una certa confusione su questo punto si deve attribuire la debolezza del contributo psicologico e sociologico al dibattito sui processi di cambiamento sociale e, nello specifico, sul tema della Sanità.

A questo proposito, commentiamo la seguente affermazione : « in un clima di generale valorizzazione del paradigma “politologico”, le scienze sociali mancando al compito di evidenziare e spiegare l’ agire dei cittadini-utenti, possono ritenersi corresponsabili del distacco sociale creatosi, ad esempio, tra domanda sociale di 9 salute e politiche sanitarie del Paese » (Vicarelli, 1990). Si può senz’ altro condividere l’ affermazione sulla prevalenza del paradigma politologico, affiancandovi magari quella del paradigma economico, rispetto ai quali appunto le discipline psicologiche e sociologiche sembrano essere in una posizione meno significativa ai fini della comprensione dello stato dell’ arte e dei processi di cambiamento. Ma l’ affermazione suggerisce anche l’ idea che il compito delle I scienze sociali sia di colmare lo iato tra domanda sociale e politiche della sanità, individuando come oggetto di studio l’ agire dei cittadini-u- I tenti: posizione che è sottoscrivibile, magari in altri termini, forse da molti psicologi.

Proprio questo punto mi sembra cruciale per j ragionare sul senso di una tecnica di intervento I per la psicologia del lavoro. Le analisi che abbiamo proposto sull’ Ospedale infatti, più che | colmare un qualche distacco, costituiscono il tentativo di fornire una lettura della realtà ospedaliera in chiave psicosociologica e una specifica e particolare interpretazione che consenta di intravedere anche il senso dei possibili cambiamenti. Insomma, l’ ipotesi che sostiene quanto si è detto è che il compito delle scienze sociali sia prima di tutto quello di dare delle chiavi di lettura e di interpretazione dei fenomeni sociali.

Coerentemente con questa ipotesi, l’ oggetto di ricerca/intervento diventa la comprensione delle logiche che sottendono il comportamento organizzativo e l’ agire non tanto dei cittadini- utenti quanto degli attori fondamentali della sanità. Ricerca che si muove ponendo in relazione due elementi: il senso dato dagli attori stessi alla complessità dell’ organizzazione e dei propri comportamenti e la dimensione istituzionale, cioè un modo di percepire/costruire la realtà meno evidente e meno consapevole alla mente degli attori stessi e pur tuttavia determinante l’ agire organizzativo. Se questi sono dei modelli di analisi e di interpretazione condivisibili per la psicologia del lavoro, ci si può chiedere come costruire una tecnica di intervento coerente ed adeguata.

 

5Unipotesi sulla psicologia del lavoro

In un precedente lavoro (Guerra, 1989), proponevo, nei confronti della psicologia del lavoro “classica”, una duplice critica: lo svilimento a psicologia “applicata” e la confusione intorno alla posizione dello psicologo nel lavoro di ri- cerca/intervento. Il concetto di applicazione rinvia alla separazione di due momenti: uno creativo, nobile, rivolto all’ elaborazione di teorie e all’ invenzione di strumenti; uno esecutivo, non sofisticato, di banale traduzione di quelle teorie e di quegli strumenti in un qualche segmento della realtà.

Si tratta, ben inteso, di un’ immagine statica e rigida e, a ben guardare, inconsistente proprio da un punto di vista teorico, anche se forse rende efficacemente la rappresentazione che molti psicologi hanno di sé. E’ all’ interno di questa rappresentazione, infatti, che si collocano molti psicologi alla ricerca di “strumenti”: test, questionari, colloqui, conduzione di gruppi ecc., come se lo strumentario in sé fosse dotato di senso.

Questa rappresentazione della psicologia del lavoro è senza dubbio problematica perché fornisce un’ immagine debole del sapere e delle sue potenzialità. Ma ancora più cruciale è il rischio di mascherare la complessità degli aspetti tecnici dell’ intervento che nascono dal fatto che lo psicologo del lavoro si trova sempre ad operare all’ interno di contesti sociali e relazionali e perciò stesso all’ interno di conflitti. Se gli a- spetti tecnici, invece, non vengono trascurati, si proporrà come competenza cardine dello psicologo la capacità di saper affrontare (cioè, saper individuare e interpretare) i contesti e i conflitti all’ interno dei quali è chiamato a lavorare. Tra i problemi che appariranno allora, il più rilevante ma forse anche il meno evidente e chiaro sarà proprio quello che lo investe direttamente nel momento di una richiesta di consulenza o di ricerca. Il rapporto con il committente — cioè la presa in carico della relazione che fonda il lavoro — propone come competenza fondamentale dell’ interveniente quella che con Carli (1987) chiamiamo L’ analisi della domanda.

Tuttavia, l’ Ospedale, proprio per le ragioni che abbiamo discusso in precedenza, difficilmente ammette un committente forte in grado di richiedere un intervento. In questo senso, il problema è meno che mai: « cosa si può fare », ma è: « chi è interessato a fare che cosa ». Nella situazione attuale dell’ Ospedale, ad esempio, chi può assumere un ruolo di committenza di un intervento?

Non credo che ci siano risposte scontate o che si debbano solo individuare dei ruoli strategici particolarmente adatti a fare il committente.

Credo invece che questo interrogativo implichi la riflessione su un’ ulteriore competenza: quella di rendere possibile, in una situazione indubbiamente problematica com’ è quella dell’ Ospedale, lo sviluppo e la assunzione di una domanda. Il che, per altro, presuppone nello psicologo la chiarezza del senso della sua offerta, del valore del suo prodotto e della utilità di questo in rapporto alla realtà nella quale intende intervenire.

Anche se certamente in modo sintetico, spero di aver reso abbastanza la rilevanza del problema che nasce dal necessario e inevitabile intrecciarsi delle questioni connesse ai modelli di lettura e di interpretazione della realtà organizzativa con le questioni connesse alla tecnica di intervento.

Proprio questo, a mio avviso, è il terreno su cui si misurano oggi le potenzialità della psicologia del lavoro. E’ difficile immaginare che la disciplina possa realmente crescere se non si affrontano i problemi di teoria e di teoria della tecnica. In questo senso Sanità e Ospedale costituiscono un’ ottima e stimolante occasione non solo per trovare nuovi spazi di intervento.