Alcune riflessioni su errore, rischio, evento critico, nei contesti di cura

Intervento presentato al convegno: “Sbagliare sulla scena della cura”

Roma, 8/11/2018

Facoltà di Sociologia, Università “La Sapienza”, Roma

 

Civitillo A. – De Berardinis D. – Dolcetti F.

Presentiamo un intervento che ha implicato il reparto di Oncologia e l’Unità di Psicologia dell’Ospedale Fatebenefratelli Isola Tiberina di Roma. Il reparto di Oncologia è un luogo fortemente organizzato attorno alla cronicità, condizione che evoca spesso impotenza: un luogo designato alla cura ma nel quale talvolta è impossibile guarire. I problemi si declinano nel definire obiettivi comuni, nei vissuti, nei desideri, nelle aspettative.

Immaginiamo una persona a cui è stata diagnosticata una malattia cronica, dunque non guaribile. Possiamo supporre che quella persona abbia dei sentimenti che non trovano spazio nella prassi clinica e nella natura della patologia, seppure nell’umanità con cui è accompagnata nelle cure. Sappiamo che quei sentimenti restano, non si dissolvono. Desiderare una guarigione impossibile, può generare un vissuto di impotenza con il rischio di evocare dimensioni violente nei rapporti. Pensiamo ad emozioni agìte con una forza capace di piegare la volontà altrui, in grado di scavalcare le regole che fondano i rapporti di un contesto, aggredendole. Facciamo un esempio: il delicato problema delle persone che per essere ricoverate passano attraverso il Pronto Soccorso. Il funzionamento del reparto di Oncologia prevede, ai fini della presa in carico, che il paziente sia in condizioni critiche. Sono la gravità del quadro clinico e delle condizioni generali a determinare il ricovero di un paziente e la sua permanenza nel reparto di Oncologia. Un paziente che non presenti determinate condizioni cliniche, non può dunque essere ricoverato benché lo desideri. È in queste situazioni che sovente il paziente ricorre al passaggio per il Pronto Soccorso, nel timore che il proprio desiderio e le proprie paure non bastino.

L’eventualità che un paziente sporga denuncia è qualcosa in più di una preoccupazione, possiamo dire piuttosto che sia una possibilità in grado di incidere sulla definizione della prassi medica. La decisione di ricoverare o meno un paziente oncologico che si presenta in Pronto Soccorso, viene presa avendo a mente sia le condizioni cliniche, sia l’eventualità di una denuncia successiva al rifiuto di presa in carico. Sappiamo che questo è un problema molto rilevante per gli ospedali sotto diversi profili: clinico, economico, organizzativo. Possiamo pensare all’ospedale come a un luogo attraversato da fantasie di potere persecutorio, ovvero fantasie in cui vi è qualcuno che possiede un bene e non vuole concederlo a chi, desiderandolo fortemente, a sua volta aggredisce e rende impotenti scavalcando, svalutando e attaccando la prassi e le competenze mediche. Queste fantasie circolano nell’ospedale, nel senso che non sono generate dall’iniziativa di un singolo ma esprimono culture che organizzano i rapporti.

Vorrei citare una situazione clinica. Si teme che un paziente ricoverato menta sui propri sintomi e sulle proprie condizioni socio-economiche. Il paziente lamenta dolori che non trovano un riscontro nel quadro clinico e ripete in continuazione di appartenere ad una famiglia di “ricchi e potenti imprenditori”. Un infermiere chiede se vi sia un modo per capire se il paziente dica il vero. Che siano bugie o verità, abbiamo ipotizzato che il paziente temesse di essere dimesso (tradotto emozionalmente: cacciato via, espulso) entro fantasie di potere persecutorio, per le quali le proprie paure non avrebbero trovato spazio in un luogo in cui ciò che vale è l’essere figlio di professionisti illustri e temibili piuttosto che essere fragili e bisognosi. Queste fantasie trovano una corrispondenza da parte dell’ospedale, nella misura in cui sorge il dubbio che il paziente faccia “il furbo” per ottenere un bene che non gli spetta (il ricovero in ospedale).

A nostro modo di vedere c’è una connessione tra fantasie di potere ed errore. Arriviamo ad un problema centrale: trattare l’errore come fatto o come vissuto emozionale. Riteniamo che trattare l’errore come vissuto emozionale, prima ancora che come fatto, aumenti i gradi di libertà dell’intervento. Per tornare all’esempio del presunto imbroglione, se trattassimo l’essere bugiardo come un fatto, avremmo pochi margini di intervento. Senza considerare l’ardua, faticosa e spesso impossibile impresa di dimostrarne l’autentica natura, il bugiardo sarà sempre tale. Al massimo lo si può smascherare. Diversamente, trattare il vissuto, svela quanto sia irrilevante determinare la veridicità delle dichiarazioni del paziente: queste sono espressione di emozioni e fantasie che possono essere utilizzate nel rapporto, e private delle dimensioni violente. Perché dovrei piegare la volontà dell’altro se scoprissi che egli sia disponibile ad ascoltarmi, a prendere sul serio i miei sentimenti?

L’utilizzo della categoria fatto-vissuto, può aiutarci a capire meglio eventi dove l’errore può facilmente essere inteso come colpa, qualcosa che arreca danno, che implica una punizione. Ci viene in mente un evento critico che ha interessato l’ospedale nel periodo in cui si sviluppa l’intervento di cui vi parliamo. Il reparto di Oncologia, fino ad allora situato in un’ala dedicata, è smobilitato e accorpato ad altri due reparti. In questo nuovo assetto, prodotto da varie necessità, tra la quali quella di “risparmiare urgentemente” denaro, chi si occupa dei pazienti oncologici sono gli infermieri già operanti nell’ala designata ad ospitare l’accorpamento, i quali lamentano inesperienza nel trattamento di tali patologie; intanto gli infermieri del “vecchio” reparto di Oncologia sono redistribuiti altrove, secondo una logica a-contestuale del turnover. Accade quindi che in questo nuovo assetto organizzativo, medici e infermieri sentivano di prestare la propria opera in condizioni di peggioramento delle condizioni di cura, e apparivano più preoccupati del solito dal rischio di commettere errori. In effetti possiamo essere d’accordo sul fatto che una tale riorganizzazione possa aver incrementato in maniera considerevole il rischio di sbagliare.

Ci siamo tuttavia sorpresi nel riscontrare che, sebbene il rischio di errori fosse cresciuto, pazienti e familiari mostravano di essere emozionalmente vicini al personale, i riscontri parlavano di un discreto livello di compliance con le cure e un basso livello di conflittualità. I pazienti sentivano di condividere un disagio istituito da cause terze, spesso lo dicevano a chiare lettere. Un vissuto di rischio dunque, ma non di conflittualità, mettendo in luce il rapporto non scontato tra rischio, errore e denuncia. Questo evento ci ha dato da pensare molto. Da un lato ci dice che un rischio incrementato può accrescere la probabilità di errore ma non per questo di denuncia, e che quel vissuto orienta in modo non scontato la qualità del clima nel reparto. Dall’altro segnala ancora una volta il vissuto di chi si sente sottoposto ad un potere asimmetrico. In questo caso il persecutore era il terzo responsabile dell’accorpamento, non il personale sanitario sentito invece come alleato col quale si condivide una condizione di svantaggio.

Il potere di chi ha e che non vuol dare, dicevamo poc’anzi. Ma anche il potere di chi dà un nome al problema e definisce chi è il destinatario della cura. Facciamo un esempio: un oncologo segnala all’Unità di Psicologia un paziente ricoverato che appare oppositivo, depresso, spaventato. Chi ha il potere di indicare il “portatore del problema”, e chi è quest’ultimo? Sarà il paziente depresso oppure il medico addolorato per le condizioni del paziente? Una volta nominato il problema e individuato il portatore, immaginiamo ad esempio il paziente depresso, siamo sicuri che quest’ultimo sia d’accordo nel vedersi come tale e quindi con l’accettare il trattamento previsto dall’ospedale? Se invece decidessimo che l’intervento debba essere rivolto al medico?

In entrambi i casi l’intervento spesso va incontro a fallimento, risulta inefficace oppure si dissolve, per l’impossibilità di trattare la complessità di tale questione entro le premesse appena descritte. Abbiamo tentato di occuparci di tali problemi e vogliamo parlarvi delle tecniche che abbiamo scelto di utilizzare. Parleremo di un giro visita psicologico, sviluppato come evoluzione di un giro visita preesistente condotto da un’équipe multidisciplinare: una o più volte a settimana un gruppo composto da uno o più medici, infermieri e psicologo si recava presso le persone ricoverate allo scopo di intercettare problemi ed offrire uno spazio per trattarli.

Ci sembrava che in presenza di più professionisti le persone ricoverate non sempre si sentivano libere di parlare. Abbiamo ipotizzato che la presenza di diverse figure specialistiche orientasse nel paziente una relazione ancorata alle distinzioni tecniche di ciascuno. Nel nostro intervento c’è stata un’attenzione a produrre integrazioni più che sommatorie fra diversi professionisti, che non si traducesse in una reificazione della loro presenza. Se il paziente parla del livello dei suoi globuli rossi non è detto che voglia confrontarsi esclusivamente su un dato clinico, ma è possibile che al tempo stesso e su un livello parallelo, stia proponendo al medico il suo desiderio di poter proseguire la cura, magari lo sta invitando a prescrivergli un altro ciclo di chemio, che per lui è un segnale o un simbolo della sua guaribilità.

Problemi composti da vari pezzi scissi e individui depositari del problema, parlano di una cultura organizzata su frammentazioni e dunque a rischio di produrre vissuti di violenza. Il giro visita psicologico ha utilizzato la dimensione multidisciplinare nell’ipotesi secondo la quale il baricentro sia da spostare dall’individuo alla relazione, entro una proposta che non vede l’intervento centrato su un problema a partire dalla sua definizione, ma al contrario, lo definisce incontrando le persone che popolano il reparto, siano esse medici, infermieri, pazienti o familiari.

Vorremmo sottolineare che la dimensione centrale, il presupposto su cui si fonda questo giro visita non è dato dalla tecnica di per sé, ma dalla necessità di organizzare un contenitore in cui i problemi possano essere intercettati e affrontati. Funziona così: prima di fare il giro delle stanze che ospitano i pazienti del reparto di Oncologia, lo psicologo incontra medici e infermieri per chiedere loro informazioni, eventuali criticità. La visita ai pazienti parte da questo scambio e si sviluppa ponendo una domanda semplice alle persone incontrate nelle stanze: “come va?”. Parla solo chi ne ha voglia. Al termine del giro visita, lo psicologo produce un resoconto scritto in cui restituisce a medici e infermieri una lettura psicologico-clinica delle questioni incontrate. Questioni, voglio ricordarlo, che sono presentate come feedback rispetto allo scambio avuto prima delle visite: il cerchio si chiude dove è iniziato. Parlando dei pazienti, medici e infermieri contattano inevitabilmente i propri vissuti e lo fanno entro una cornice che non li vede come “portatori di un problema” che li obbliga a sottostare ad una procedura avvertita come violenta.

Non sono dunque chiamati entro un rapporto che gli propone di subire il potere dello psicologo, ma sono chiamati in causa in quanto indispensabili a capire che succede. Pensiamo alle volte in cui una o più persone che appaiono sofferenti rifiutano di essere aiutate. La nostra ipotesi è che il rifiuto non esprima la negazione della propria sofferenza ma che sia relativo alla fantasia di rapporto che si verrebbe a creare nel caso in cui si accettasse di essere “portatore di un problema”. Facciamo un esempio: un paziente palesemente depresso che riufiuta di essere aiutato, potrebbe essere un paziente che non vuole implicarsi in un rapporto che lo veda trattato con compassione, oppure che lo veda spinto ad avere un atteggiamento ottimista. Il rifiuto dunque, non è da individuare nella mancata accettazione della propria condizione, ma nell’eventuale trattamento compassionevole e/o motivante. Concludo col sottolienare l’importanza del resoconto clinico inteso come elemento centrale di un processo di scambio e non come sentenza illuminante. Abbiamo visto come col passare del tempo gli scambi tra personale e psicologo abbiano contribuito alla crescita, per nulla scontata, della complessità concettuale attraverso cui leggere i problemi.