La perizia psicologica come occasione di intervento in un caso di abuso sessuale intrafamiliare

Articolo pubblicato su “Acta Psychologica”, N.6 – 12/95

Autori: Emanuele del Castello e Lilia Nuzzolo

 

 

1. Premessa

L’analisi delle aspettative e delle motivazioni sottese alla richiesta di intervento psicologico, nonché della trama relazionale che fa da contesto alla richiesta stessa, non può essere trascurata dallo psicologo clinico nemmeno quando il richiedente è un giudice nell’esercizio delle sue funzioni.

Un’analisi di questo tipo, tuttavia, pone inevitabilmente il problema del “che fare?”. E in questo senso che si può parlare della perizia “come uno strumento di ricerca-intervento”, mediante il quale “il perito non lavorerebbe solo su un quesito, ma su una consegna più complessa che potrebbe consentire, ad esempio, di ipotizzare, avviare e verificare una fase di cambiamento della situazione del soggetto che ha problemi con la giustizia” (De Leo, 1989, p.256).

Se questa ottica nell’ambito civile minorile ha una tradizione meglio consolidata (Dell’Antonio, 1989; De Leo e Malagoli Togliatti, 1990), in ambito penale, come avverte De Leo (1989), “questo tipo di strumento potrebbe rivelarsi adeguato a patto che venga regolamentato e non sia lasciato alle idiosincrasie e alle sperimentazioni su esposte”.

In questo lavoro presentiamo un caso che presenta alcune peculiarità:

  1. La perizia, richiesta da un pubblico ministero ha lo scopo di verificare la veridicità delle accuse avanzate da un minore nei confronti di un adulto. Il parere che lo psicologo è chiamato a fornire ha quindi effetto sull’avvio del procedimento penale, prima ancora che sul giudizio.
  2. Lo psicologo interpellato non è iscritto all’albo dei periti presso il tribunale, quindi la richiesta è avvenuta sulla scorta di un rapporto di fiducia tra il giudice e il professionista.
  3. Lo psicologo non aveva esperienza specifica nel campo giuridico e, in particolare, penale, e quindi ha dovuto avvalersi esclusivamente della propria competenza psicologico clinica.
  4. Il reato denunciato riguarda un abuso sessuale intrafamiliare subito da una minore alcuni anni prima della denuncia.

La letteratura specialistica, pur se in misura diversa, è unanime nell’attribuire all’abuso intrafamiliare seri effetti psicopatologici sui minori che ne sono vittime (Gaddini, 1983, cit. in Vassalli, 1990). Sarebbe opportuno soffermarsi su ciò che si intende per abuso sessuale ed incesto, al di là delle differenze di impostazione legate alle diverse professionalità che sono coinvolte nella questione.

Mrazek e Mrazek (1981), sostengono che quando si affronta tale questione bisognerebbe includere:

  1. una descrizione esplicita della natura degli atti sessuali, della loro frequenza e della presenza o meno di violenza o minacce di violenza;
  2. una descrizione dell’età e dello sviluppo dei soggetti coinvolti (differenza di età, livello di intelligenza, condizioni psichiche, ecc.);
  3. una comprensione del tipo di relazione tra le persone coinvolte;
  4. una descrizione dell’atteggiamento e del grado di coinvolgi mento di altri membri della famiglia e una descrizione degli atteggiamenti culturali rispetto alla sessualità prevalenti nell’ ambiente sociale circostante (Vassalli, 1990)

Da un punto di vista psicologico clinico, una definizione utile ci è sembrata quella proposta da Sgroi, Blick e Porter (1982, p.9). i quali sostengono che l’abuso sessuale è “un atto sessuale imposto ad un minore. […] La possibilità di coinvolgere un minore in una relazione sessuale si basa infatti sulla posizione dominante e di potere dell’adulto, che è in netto contrasto rispetto all’età, alla dipendenza e alla posizione subordinata del minore”.

Inoltre aggiungono che abuso sessuale di tipo incestuoso possa essere ritenuto ogni forma di attività sessuale tra un minore ed un genitore naturale o acquisito, un componente della famiglia estesa o persino una figura parentale sostitutiva.

Infatti, da un punto di vista psicologico, la presenza o meno di legami di sangue tra le persone coinvolte è poco significativa rispetto al ruolo generazionale che esse svolgono nel contesto familiare.

Ciò che ci interessa evidenziare in questa sede si riferisce alle recenti ricerche (Herman, 1988; Russell, 1986) a carattere retrospettivo sulle conseguenze dell’abuso sessuale, le quali evidenziano come più gravemente l’incesto, ma ogni tipo di abuso sessuale intrafamiliare, sia stato individuato essere all’origine di diversi disturbi della personalità.

È da sottolineare che le conseguenze di cui sopra, si distinguono in effetti a breve termine e a lungo termine. Per effetti a breve termine si intendono le manifestazioni patologiche immediatamente conseguenti all’abuso sessuale che necessitano di sostegno ed elaborazione e si concretizzano in intense sofferenze emotive quali paura, angosce, vergogna, colpa, disperazione o disturbi per esempio dell’apprendimento, della socializzazione, alimentazione, psicosomatici e di conversione.

In riferimento a ciò che risulta dall’esperienza clinica, è da evidenziare inoltre che gli effetti di un abuso compaiono anche a numerosi anni di distanza dalle esperienze che le hanno provocate. Poiché l’incesto o l’abuso sessuale è una esperienza che attraversa l’esistenza di una persona che l’ha subito durante il suo sviluppo, ne consegue che essa influenza inevitabilmente la formazione dells personalità.

“Se i minori non vengono opportunamente aiutati, non solo proteggendoli, ma anche fornendo loro accurate cure psicologiche, i disturbi tendono a cronicizzarsi o possono aggravarsi, trasformandosi, con l’ingresso nella vita adulta, fino a dar luogo a nuove e più stabili formazioni patologiche”. (Vassalli. 1990. p.40)

  1. Presentazione del caso

2.1 la richiesta di consulenza

Il caso che descriveremo di seguilo si riferisce ad una consulenza tecnica richiesta dal Pubblica Ministero relativamente all’accertamento delle condizioni psicologiche di una minore che giocava il ruolo dell’accusatrice all’interno di un procedimento penale.

Il consulente, individuato dal giudico sulla scorta di una segnalazione di un collega, è stato convocato presso il tribunale. In questa sede, anche in considerazione del fatto che si trattava della prima esperienza in campo penale, si è soffermato il più possibile sul contenuto e le motivazioni della richiesta che gli veniva avanzata.

Il quesito posto era il seguente: “Accertare se le accuse formulate da Marina T., nei confronti di Bruno F. potevano essere dovute a pseudologia fantastica”.

Il giudice ha spiegato al consulente che Marina, una ragazza di 14 anni aveva denunciato Bruno F., secondo marito della propria nonna materna, per episodi di abuso sessuale avvenuti quando la ragazza aveva 7 anni. La ragazza aveva dichiarato che a quell’età il nonno acquisito mostrava un certo interesse nei suoi confronti che si concretizzava anche in regali e in “affettuosissime” carezze in alcune parti del corpo. Sarebbe stato in occasione di una visita di Bruno F. a casa della piccola che, approfittando dell’assenza della madre e della nonna, si verificò l’episodio di abuso sessuale, che a detta della ragazza sarebbe avvenuto senza violenza fisica, ma in uno stato di soggezione tale da non consentire alcuna ribellione alla ragazza. L’episodio si sarebbe concluso con l’intimazione da parte del nonno di non proferire parola con alcuno. In seguito, simili tentativi da parte di Bruno F., che si sono verificati fino a tempi recenti, avevano trovato, invece, una resistenza più ferma da parte della ragazza.

La decisione di sporgere denuncia sarebbe avvenuta di recente in occasione di una conversazione tra Marina e la madre in materia dei comportamenti da tenere all’interno di un eventuale fidanzamento. Quando la madre aveva cercato di darle consigli al riguardo, la ragazza aveva sentito il bisogno impellente di confidare la sua esperienza. Immediatamente, i genitori avevano accompagnato la ragazza ad un posto di pubblica sicurezza per depositare la denuncia.

Il giudice aveva anche rivelato al consulente che la perizia medico legale già effettuata aveva dato esiti negativi, in quanto alla visita ginecologica non erano emersi segni di avvenuta deflorazione.

A questo punto per il consulente divenne evidente la difficoltà del giudice, il quale doveva decidere se procedere all’avvio del procedimento penale nei confronti di Bruno F., senza altre prove se non la testimonianza di Marina.

C’è da dire che il consulente, più sulla scorta dell’interesse suscitato dal caso che su una chiarezza di idee su come procedere, accettò la consulenza tecnica, con il proposito di organizzare il proprio lavoro non tanto come una risposta tout-court al quesito avanzato, ma come tentativo di poter comprendere nell’intervento sia la “domanda” del giudice che la “domanda” implicita che si poteva individuare dietro l’azione esplicita della minore e della sua famiglia (denuncia giudiziaria).

 

2.2 Conduzione della consulenza

Il primo incontro con la famiglia T. è avvenuto presso il Tribunale, nella sede della Sezione di Polizia Giudiziaria. In questa occasione, il consulente ha conosciuto la famiglia e ha concordato le modalità e i tempi di conduzione dell’intero lavoro, che si sarebbe svolto presso lo studio degli scriventi.

 

2.2.1 Primo colloquio clinico

Al primo colloquio hanno partecipato Marina e i due genitori. Durante l’intervista il padre è stato tacitamente designato dagli altri familiari a fare da portavoce nei confronti del consulente. Questo, in qualche modo, aveva la funzione di tranquillizzare le due donne e deresponsabilizzarle dall’esposizione dell’accaduto; d’altro canto evidenziava una condizione di sottomissione delle stesse. Dall’analisi delle dinamiche relazionali del nucleo familiare e di quanto in passato era accaduto relativamente all’educazione di Marina, è emerso un rapporto caratterizzato da estremo controllo da parte del padre nei confronti della figlia, nonché da un atteggiamento piuttosto formale e poco protettivo da parte della madre; entrambi i genitori definiscono la ragazza come dotata di un carattere introverso e insicuro, senza essere in grado di mettere in relazione il loro comportamento con lo sviluppo psicologico della figlia.

Il padre ha riferito inoltre le cause per cui Marina, ultimogenita di sette figli, non aveva continuato gli studi oltre la quinta elementare anche se desiderava farlo. I pericoli in cui sarebbe potuta incorrere la ragazza frequentando la scuola (sesso, droga, ecc.) lo avevano spinto a tenere la figlia a casa, per proteggerla così da eventuali situazioni esterne. Non ha nascosto, comunque, il desiderio di vederla collaborare con la moglie, ormai stanca e demotivata, nella gestione della casa.

 

2.2.2. Colloqui con la ragazza

I successivi quattro incontri si sono svolti in setting individuale.

Dopo un comprensibile momento iniziale di diffidenza e timidezza. Marina ha instaurato con il consulente una relazione significativa che le ha permesso di superare le inibizioni iniziali, mostrando partecipazione e disponibilità alle richieste di collaborazione. Pertanto ho effettuato una valutazione psicodiagnostica approfondita basata sulla raccolta di dati anamnestici, sul colloquio clinico, sull’utilizzo di reattivi grafici (Test dell’Albero, della Figura Umana, della Famiglia) e dello Psicodiagnostico di Rorschach.

Le conclusioni a cui si è giunti a seguito della valutazione psicodiagnostica vengono esposte qui di seguito, così come sono state riferite al giudice.

Area cognitiva

Nessun problema nelle capacità percettive, il soggetto è capace di adattarsi adeguandosi alla realtà obiettiva e agli stimoli da essa provenienti.

Integro, quindi, l’esame di realtà, buone le capacità di critica e di giudizio.

Non sono presenti disturbi formali e di contenuto del pensiero; si segnala però una inibizione del pensiero di origine affettiva. Le capacità sono buone ma il rendimento e le possibilità di metterle in pratica sono compromesse dallo stato depressivo.

Funzionamento cognitivo globale nella norma.

Area affettiva

Atteggiamento di base tendente all’introversione, presenta oscillazioni affettive evidenti a livello comportamentale, legate anche all’età adolescenziale, è in cerca di un equilibrio emotivo.

Il soggetto per lo più tende a soffocare la vita affettiva e a sottolineare l’aspetto intellettuale della sua personalità. Inoltre c’è una propensione ad isolarsi dall’ambiente e a difendersi dal coinvolgimento di stimoli affettivi che da esso provengono attraverso l’utilizzo di meccanismi difensivi di ipercontrollo.

Sono presenti vissuti di inibizione, insicurezza, colpa, inadeguatezza personale, conformismo. Per sfuggire sentimenti spiacevoli che derivano dalla penosa sensazione di non sentirsi accettata. Marina infatti reagisce con un conformismo che la porta a d adeguarsi il più possibile al modo di percepire e di pensare degli altri.

L’immagine di sé è discreta, buona la identifìcazione psicosessuale, anche se la relativa autoimmagine psicosessuaie è fortemente colpevolizzata e compromessa.

Area pulsionale

E presente una significativa repressione della sessualità e della aggressività.

L’aggressività tende per lo più ad essere rivolta contro se stessa. Sono presenti vissuti depressivi ed un livello di angoscia a volte disturbante.

Area psicosociale

Rapporto con le persone significative connotato da forte dipendenza affettiva ; bisogno di sostegno e di accettazione che inizia ad entrare in conflitto con le esigenze di crescita, autonomia ed salo affé rotazione. Carenza nel contatto immediato e spontaneo sia con se stessa, sta con il mondo circostante con conseguenti atteggiamenti formalistici di adeguamento pur di sentirsi accettata.

Area dell’attività

E presente una difficolta nella progettazione della vita futura anche in relazione alle interferenze provenienti dall’ambiente familiare. Tale ambiente, infatti, non è sufficientemente idoneo a darle aiuto nella realizzazione delle sue aspirazioni. C’è una tendenza a proporre uno stile di vita che non è conforme alle idee della ragazza ma comunque ella sente il dovere di non rifiutare.

Conclusioni diagnostiche

Integrando le informazioni ottenute dai dati anamnestici e dall’analisi dei protocolli dei tests è possibile affermare che il funzionamento della personalità della ragazza non può essere messo in relazione a nessuna delle psicopatologie in cui solitamente il sintomo “psudologia fantastica** è presente.

La tendenza alla chiusura, la scarsa comunicazione nelle relazioni interpersonali, l’inibizione, la depressione del tono dell’umore caratterizzata da una certa riduzione dell’iniziativa, la tendenza all’incertezza, il bisogno di sostegno tendono ad evidenziare, invece, uno stato depressivo.

Non è emersa, nella relazione instaurata con la ragazza, la tendenza all’utilizzo strumentale dei sintomi al fine di ottenere vantaggi secondari all’ interno delle relazioni interpersonali.

Lo stato depressivo, esacerbato sicuramente dai motivi per cui ti è dato avvio al procedimento, necessità di un intervento psicoterapico di sostegno per essere superato e ciò per non compromettere (vista anche l’età adolescenziale) il successivo sviluppo psicologico e la strutturazione del carattere della ragazza.

2.2.3. Restituzione alla famiglia

Prima di consegnare le risultanze della perizia al giudice, il consulente ha ritenuto di dovere restituire alla famiglia il frutto della valutazione della situazione problematica che aveva condotto all’azione “denuncia”. Questo innanzitutto al fine di aiutare i genitori a comprendere i bisogni, la cui soddisfazione era stata affidata alla condanna penale del parente acquisito. I signori T. infatti avevano dinanzi a loro compiti molto dolorosi, per affrontare i quali sembravano non avere le risorse necessarie. Fra questi compiti c’erano: l’elaborazione del fallimento educativo (da loro percepito) nei confronti della figlia Marina; la ristrutturazione dei rapporti con la famiglia estesa, nonché di quelli interni alla coppia genitoriale stessa.

D’altra parte, l’intervento dello psicologo aveva consentito alla ragazza di esplicitare una domanda d’aiuto per uscire fuori dalla situazione di angoscia che lo stesso procedimento penale aveva accresciuto (piuttosto che sedato), nonché di impasse evolutiva in cui era venuta a trovarsi. Ad un altro livello, inoltre, Marina manifestava il bisogno di elaborare i contenuti riguardanti il vissuto soggettivo traumatico dell’ abuso sessuale.

Era quindi necessario aiutare i genitori a cogliere quella domanda d’aiuto e farsene portavoce essi stessi.

Lo psicologo infine indicò alla famiglia i luoghi dove poter chiedere l’aiuto loro necessario (i servizi socio-sanitari competenti per territorio).

 

2.3 Risposta ai quesiti del magistrato

Il consulente alla fine della consulenza ha presentato al giudice le risultanze della sua valutazione così come sono state riportate più sopra.

Come si è visto, il consulente, pur all’interno di una diagnosi descrittiva, si è pronunciato chiaramente in senso negativo rispetto all’ipotesi avanzata dal Pubblico Ministero sulla possibilità che le accuse formulate da Marina fossero dovute a pseudologia fantastica. Va notato che tale ipotesi era in qualche modo giustificata dall’esito negativo della visita ginecologica. Il giudice, quindi, chiedeva aiuto allo psicologo per superare la contraddizione tra l’“oggettività” del reperto medico e la “soggettività” del racconto della ragazza. Contraddizione questa che la risposta del consulente non aveva appianato.

Il magistrato, pertanto, ha riformulato il suo quesito chiedendo al consulente di “relazionare sulla possibilità che Marina T. abbia inventato le accuse nei confronti di F. a causa di influenze di altri familiari oppure se le sue dichiarazioni possono essere state alterate dal passare del tempo anche in relazione all’età in cui i fatti si sono verificati o per la predetta influenza”.

La risposta del consulente è stata che non erano “emersi, all’indagine psicologica, motivi validi per supporre che, in relazione ai fatti esposti ci sia stata una pressione da parte dei familiari determinante al fine della pura invenzione dei fatti stessi, tenuto conto anche della reazione emotiva (stato depressivo) della ragazza in relazione all’accaduto, oltre che della già accertata esclusione di un funzionamento della personalità orientalo a fantasticare in senso patologico. Conseguentemente si può attendibilmente ipotizzare che la deposizione della T. possa essere interpretata come rivelazione di una seduzione o tentativo di seduzione vissuta dalla stessa ad opera di F. e verosimilmente distorta nel ricordo nel senso della amplificazione, considerato il tempo trascorso e l’età in cui si sono verificati”.

 

  1. Conclusioni

Riassumendo il caso presentato, ricordiamo le fasi salienti:

  • Marina confessa il suo segreto nel momento in cui la madre le fa raccomandazioni circa il comportamento sessuale da tenere in un eventuale fidanzamento.
  • Questo le fornisce l’occasione di smettere di tacere riuscendo a superare la paura e la vergogna rispetto ai problemi che avrebbero colpito la famiglia e lei stessa in seguito alle rivelazioni.
  • I genitori rispondono a questa confessione, che suscita immediatamente vissuti di rabbia, vergogna, e desiderio di vendetta, con la denuncia dei fatti presso un commissariato.
  • L’avvio del procedimento penale e l’eventuale condanna assumono immediatamente la funzione di “atto liberatorio e risolutivo” dall’impasse in cui tutto il nucleo familiare si era venuto a trovare.
  • L’idea di risoluzione della crisi appare quindi semplicistica non tenendo in nessun conto il vissuto depressivo in cui Marina si trovava e rispetto al quale la condanna o meno di F. avrebbe risolto solo parzialmente la crisi.

All’interno di una relazione significativa instaurata dal consulente con Marina e con la famiglia, si è esplicitata la domanda di aiuto psicologico dalla minore necessaria nel qui ed ora, sia per sostenere le reazioni emotive conseguenti all’avvio del procedimento penale, che per elaborare l’impasse evolutiva in cui Marina era venuta a trovarsi.

E da sottolineare la difficoltà in cui il consulente è venuto a trovarsi. Era infatti convinzione del consulente che soffermarsi sulla veridicità dei fatti avvenuti in epoca ormai remota, avrebbe rappresentato semplicemente una collusione con la domanda esplicita della famiglia e del giudice.

Se questo aveva sicuramente importanza ai fini dell’imputabilità o meno del signor F., altrettanto sicuramente l’accertamento pure e semplice dei fatti, sia se si fossero dimostrati veri o falsi, non avrebbe dato risposta allo stato di sofferenza psicologica e relazionale di Marina e della sua famiglia.

L’intervento dello psicologo, quindi, avrebbe dovuto in qualche modo essere determinante sia su un piano di risposta istituzionale al giudice, aiutandolo a non restare chiuso nella dicotomia vero-falso in riferimento al racconto di Marina, sia come stimolo, rivolto alla ragazza ed alla sua famiglia, a cercare vie alternative alla soluzione del loro disagio psicologico.