Psicologia della salute e promozione dello sviluppo nella prima infanzia
Articolo pubblicato su “Acta Psychologica”, N.2 – 08/92
Autori: Paride Braibanti, Paola Mamone
La psicologia della salute in età evolutiva
La dimensione evolutiva rappresenta una dimensione centrale in Psicologia della Salute (cfr. ad es. Bertini, 1991; Holtzman & Al., 1991). Molti fattori di salute, forse determinanti per l’intero arco della vita, hanno infatti origine nella prima infanzia. Senza voler richiamare la tradizione psicologica che riconosce in generale ai primi anni di vita un valore determinante per la salute psichica del soggetto, basterà riferirsi soltanto alle ormai ben documentate relazioni tra sviluppo della competenza immunitaria ed eventi biologici, psicologico-relazionali e sociali che investono il bambino nel primo anno di vita.
Così come avviene per lo sviluppo psichico e sociale, i primi mesi di vita appaiono determinanti nell’ acquisizione di fattori di protezione. Ad esempio l’ allattamento a domanda protratto nel tempo ha un effetto di facilitazione delle risposte immunitarie delle vaccinazioni ed esercita contemporaneamente un effetto favorevole nella protezione dalle malattie atopiche a auto-immuni (Lucas & Al., 1992; Mincheva-Nilsson & Hammarstroom, 1990; Pabst & Spady, 1976).
Sotto questo profilo, sviluppo biologico, psicologico e sociale sono finemente intrecciati in un equilibrio dinamico, la cui forza non deve essere sottovalutata, poiché esso stesso rappresenta un fattore di salute che può nondimeno trovarsi esposto a perturbazioni non sempre riparabili. Inoltre la centralità dell’ intervento sull’ infanzia in psicologia della salute è sottolineata dal fatto che uno degli indicatori più tipici delle diverse forme di disadattamento sociale è proprio l’indebolimento delle capacità di orientamento e di sostegno allo sviluppo infantile nell’ ambito delle relazioni familiari.
Per ampliare lo spettro degli interventi in direzione della promozione della salute e dell’ educazione al benessere rivolti alla primissima infanzia, occorre in primo luogo riaffermare la funzione strategica dell’ intervento psicologico. Negli ultimi tempi, ad esempio, la diagnosi e la prevenzione precoci delle disfunzioni sul piano cognitivo e di apprendimento stanno ottenendo una crescente attenzione al livello dei servizi di prevenzione e di riabilitazione, nel quadro di una diffusa presa di coscienza della necessità di riconoscere ed intervenire precocemente sui disturbi dello sviluppo.
Per quanto la materia sia di indubbio e primario interesse per la psicologia evolutiva, diversi fattori hanno di fatto impedito che generalizzati programmi di ricerca e di prevenzione al livello psicologico siano messi in atto nel nostro Paese. L’attenzione è semmai tuttora assegnata in prevalenza a disturbi di carattere neurologico e, comunque, a strategie in cui l’approccio neuropsichiatrico appare prevalente. Così in Italia i rari servizi di follow-up del bambino a rischio non prevedono uno spazio sufficiente per gli aspetti picologici. In realtà l’intervento psicologico è indispensabile sia nel quadro generale della prevenzione e del trattamento degli handicap neuromotori e sensoriali, sia sul terreno specifico delle difficoltà sul piano cognitivo, emotivo e relazionale. Queste ultime, anche quando siano riconducibili ad un quadro fenomenologico di handicap neuromotorio e sensoriale, non possono essere interamente e soddisfacentemente spiegate solo da questo. Inoltre esse si presentano spesso in contesti in cui non vi sono tratti patologici evidenti al livello neurologico e sensoriale. In generale, si può affermare che le difficoltà cognitive e affettive pertengono in grande misura ad una dinamica autonoma, sia pur non priva di fonda- mentali interazioni con i diversi fattori biologici e sociali.
L’esame della realtà assistenziale fa emergere la mancanza di una cultura psicologica di programmazione nei servizi per la prima infanzia. Questi, infatti, quando esistono, sono polarizzati intorno al versante educativo-assistenziale (asilo-nido) o al versante della diagnosi-cura-riabilitazione (servizi pediatrici e riabilitativi), ma manca spesso tuttavia una adeguata attenzione alle problematiche di sviluppo, un’ estesa capacità di intervento di sostegno e di promozione dello sviluppo psicosociale all’ interno delle relazioni che coinvolgono la prima infanzia. Emergono frattanto nuove forme di disagio e di disturbi della salute in relazione al deterioramento delle condizioni della società post-industriale. Ad esempio si parla sempre di più della “Urban Adaptation Syndrome” (UAS), le cui manifestazioni concernono le perturbazioni nelle relazioni familiari, come per esempio il decremento del contatto madre/bambino e le difficoltà nella relazione educativa (Carter-James, 1984).
Contrariamente al fatto che la cultura diffusa dell’ infanzia ha fatto grandissimi progressi, essa non ha saputo tradursi in servizi organici ed in agenzie di sostegno puntuali e pervasive, soprattutto nei casi in cui l’ infanzia è esposta a vecchi e nuovi fattori di rischio. Allo stesso modo non è ancora stata del tutto sviluppata una adeguata “tecnologia dello sviluppo” psicosociale, attenta non solo alle condizioni di disagio che riguardano tuttora l’ area della prima infanzia, ma anche al rafforzamento e al sostegno della funzione dei caregivers. E se, certamente, la responsabilità è da attribuirsi in gran parte ad organismi politici e gestionali, gli psicologi non hanno offerto finora un contributo sostanziale allo sviluppo di una nuova cultura della salute nella prima infanzia. È infatti necessario e possibile lavorare alla costruzione di nuove forme di professionalità, alla dotazione di nuovi strumenti di formazione per intervenire/sulla rete sociale e dei servizi, di nuove tecniche e, soprattutto, di nuovi stili di lavoro. Si avverte insomma l’ esigenza di riappropriarsi di un terreno di crescente rilevanza sociale per la salute e il benessere di una larga parte della popolazione infantile e di rilanciare la “spinta propulsiva” della ricerca psicologica verso modelli di intervento sempre più rigorosi, efficaci e rispettosi di tutte le condizioni naturali dello sviluppo.
La psicologia dello sviluppo ha del resto, sia pure in modo non sempre lineare, intrapreso un percorso importante in questa direzione, contribuendo, ad esempio, alla elaborazione di strategie della valutazione precoce dei disturbi cognitivi che sembrano convergere verso alcuni concetti di fondo:
- lo sviluppo infantile va visto multidimensionalmente come interazione di fattori biologici, sociali, cognitivi e affettivi; non c’ sufficiente evidenza empirica che i diversi aspetti dello sviluppo covarino e possano essere considerati unitariamente entro un singolo quoziente intellettivo o di sviluppo ;
- sebbene recenti ricerche sottolineino che l’ “infant information processing” evolva in modi più lineari e continui, la storia delle scale di sviluppo intellettivo e cognitivo testimoniano della difficoltà di predire le tappe successive dello sviluppo mentale;
- nessuna valutazione è realmente in grado di evitare falsi positivi o falsi negativi: è necessario procedere con estrema cautela sia nel diagnosti- care che nell’ escludere anomalie; in ogni caso la patologia può apparire dopo un periodo di latenza e, analogamente, una apparente anomalia o ritardo può evolvere spontaneamente in modo favorevole;
- lo sviluppo infantile avviene in un contesto sociale e interattivo la cui influenza va attentamente considerata e, se necessario e possibile, eventualmente modificata in modo da evitare contingenze ambientali negative o da attivare efficaci trattamenti e rinforzi (cfr. Braibanti, 1990).
Per queste ragioni appare estremamente appropriato il suggerimento di Lewis & Fox (1986) secondo cui la valutazione deve essere ripetuta nel tempo, deve considerare molteplici abilità e utilizzare diversi strumenti. Inoltre essa deve realizzarsi su livelli differenziati e successivi, ciascuno dei quali richiede una specifica strategia. In particolare un primo livello mirerà semplice- mente ad individuare i soggetti a rischio ; un secondo livello userà procedure più complesse per esplorare la presenza, l’ eziologia, l’ estensione e la specifica area delle disfunzioni nei bambini a rischio; un terzo livello sarà direttamente orientato alla programmazione e pianificazione del trattamento individualizzato.
Tuttavia, entro questo contesto, cresce la consapevolezza che le modalità di valutazione possono e debbono coinvolgere come attori, e non semplicemente come fruitori, anche coloro che si prendono cura normalmente del bambino, genitori ed educatori in primo luogo.
La sottovalutazione delle capacità materne di osservazione del bambino porta alla fine ad una ipersemplificazione della stessa rappresentazione del bambino e a misconoscerne versanti di rilievo primario. Così, ad esempio, si è potuto osservare che le madri attribuiscono spontaneamente esperienze emozionali al proprio bambino, facendo uso in modo pertinente ed accurato di categorie descrittive delle espressioni facciali e delle posture che richiedono invece un lungo addestramento negli operatori e nei ricercatori.
Ma, cosa ancor più importante, sulla base di queste categorie pertinenti, le madri riconoscono in genere nei propri bambini emozioni in largo anticipo su quanto stabilito sulla base delle osservazione cliniche e sperimentali.
Le competenze materne rappresentano una risorsa essenziale nella comprensione di una realtà “multiforme ed eteroclita” come quella infantile, che nelle categorie unilaterali delle diverse discipline scientifiche rischia di divenire, parafrasando Ponzo, semplificata ed inesistente.
Questa consapevolezza ha reso gli osservatori più attenti e sensibili alle preoccupazioni e alle dichiarazioni dei genitori che qualcosa non va.
Potrebbe sembrare banale e in qualche modo paradossale, ma è ormai certo che per fare la diagnosi nel modo più precoce e meno intrusivo possibile basterebbe dar voce ai genitori, esser capaci di ascoltare le loro osservazioni ed intuire il significato delle loro parole, dei loro silenzi e delle loro domande. Chi è in grado di cogliere le prime avvisaglie di un disturbo meglio di loro che quotidianamente nutrono, accudiscono, osservano e spiano il bambino? Una “brutta cacca”, un arresto della crescita, un eczema, un rialzo della temperatura sono, forse, meglio compresi e spiegati dallo specialista proprio perché obiettivi; ma un ritardo psicologico, un irrigidimento o un afflosciamento degli arti creano uno squilibrio che viene percepito dai genitori prima e meglio di ogni altro (Poiletta, 1982: p. 34).
Questa consapevolezza ha portato alcuni studiosi a prevedere che le stesse scale di valutazione potessero essere applicate direttamente dai genitori. E’ il caso, ad esempio, della Scala Brazelton, che, nella versione NMAS, può essere amministrata dalla stessa madre (Field, 1978). Questi tentativi importanti sono resi possibili per il fatto che le scale di valutazione dello sviluppo infantile tendono vieppiù a valorizzare il bambino reale nelle situazioni ecologicamente normali: si tratta, cioè, non tanto di definire l’ acquisizione di una abilità, ma di definirne piuttosto il contenuto relazionale (bambino/adulto, bambino/oggetti, bambino/ambiente ecc.), la capacità di utilizzazione delle risorse individuali e di quelle socio-ambientali. Tali tentativi tuttavia non sono del tutto privi di ambiguità e di rischio, se non vengono soddisfatte due precondizioni essenziali che potremmo definire la “perestrojka” e la “glasnost” della psicologia della salute applicata alla prima infanzia.
La “perestrojka ” della psicologia della salute nell’ approccio allo sviluppo: riflessione sui fattori di salute
La nuova enfasi sui fattori di salute riafferma la centralità dell’ intervento psicologico in ogni ciclo della vita. Ma perché questo sia realmente adeguato occorre intervenire progettualmente, centrando l’ attenzione sull’ attivazione delle risorse inespresse o negate presenti nel soggetto e nelle reti sociali.
Le risorse biologiche, psicologiche e interattive, sociali e culturali presenti nella relazione adulto/bambino e nel contesto psicosociale a cui questa appartiene, sono il prodotto di una lunga elaborazione al livello filogenetico dell’ evoluzione biologica e al livello sociostorico dell’ evoluzione culturale, tesa a garantire la sopravvivenza e il benessere del bambino intesi come vettori del successo adattativo della specie o del gruppo sociale. Queste risorse rappresentano una dotazione essenziale di “fattori di salute”, caratterizzabili per la loro forza riparatrice e riequilibriatrice delle lacerazioni traumatiche e per lo loro forza propellente dello sviluppo. Nella maggior parte dei casi queste risorse si rafforzano o si suppliscono reciprocamente. In alcuni casi, tuttavia, in condizioni particolari di disagio e di difficoltà la loro presenza risulta preziosa ed insostituibile, mentre la loro assenza costituisce uh fattore di rischio critico.
Questo concetto può essere ben illustrato dallo studio dell’ efficacia delle relazioni immediate e prolungate tra madre e neonato. I teorici dell’ attaccamento (Bowlby, 1969; Klaus, 1970) hanno enfatizzato il ruolo del contatto precoce come fattore determinante nello sviluppo della relazione tra madre e bambino. Anche sotto la loro influenza, in contrasto con la tradizione di separazione della coppia madre/bambino, si è sviluppata in molti ospedali in Usa e in Europa la pratica del “rooming-in” (la coppia madre e bambino rimane per tutto il tempo del ricovero nella stessa stanza). Questa prassi è resa difficile in Italia da resistenze istituzionali e dal fatto che madre e neonato sono sottoposti a responsabilità mediche differenziate (dell’ ostetrico e del pediatra).
Comunque, dopo le prime ricerche in cui la funzione del “rooming-in” sembrava rappresentare un considerevole vantaggio sulla relazione materno infantile, la comunità scientifica ha più recentemente messo in luce l’impossibilità di fare generalizzazioni e la necessità di distinguere le diverse condizioni associate. Studi più dettagliati e meglio controllati hanno così evidenziato che il contatto precoce e protratto rappresenta, per i neonati e le madri normali, un modesto vantaggio a breve termine, destinato ad esaurirsi nel giro di poche settimane. Al terzo mese sono poche le ricerche che confermano differenze nelle coppie madre-bambino normali tra quelle che hanno avuto un contatto precoce e le altre (Svejda & Al. 1983).
Tuttavia, in madri e bambini considerati a rischio (ad esempio in madri adolescenti e di basso livello sociale o in grandi prematuri) il contatto precoce risulta un fattore critico e discriminante per la percezione materna del bambino, per lo sviluppo dell’ attaccamento, per la maturazione neurologica e lo sviluppo psichico del neonato (O’Connor & Al., 1982).
In questo caso il ruolo protettivo e riparatore della relazione precoce evidenzia la scarsa sostituibilità delle risorse (non solo psicologiche, ma anche fisiologiche e sociali) di cui la relazione madre/bambino è portatrice. Per converso quando la tecnologia si pone in posizione “supplente” o, peggio, in opposizione alle strutture di normalità, essa stessa finisce col rappresentare un fattore di rischio. Tutto ciò suggerisce che il compito dello psicologo (ma anche degli altri operatori della salute) non può limitarsi all’ offerta di protesi tecnologiche non necessarie, ma deve puntare decisamente a lasciar riaffiorare e a valorizzare le risorse di salute di cui sono portatori il soggetto ed il suo corredo biologico, psicologico e sociale.
Lo psicologo della salute, insomma, deve enfatizzare il proprio ruolo maieutico e minimizzare quello supplente e delegato.
Ci sono condizioni in cui la traduzione “tecnologica” dell’ appello alle risorse dei caregivers rischia di mancare clamorosamente I’ obiettivo, traducendosi in un loro ridimensionamento piuttosto che nella loro valorizzazione. La divulgazione delle scale di sviluppo, ad esempio, « aveva, tra gli altri, anche I’ intendimento di attrezzare i genitori con uno strumento di interpretazione e di valutazione dello sviluppo infantile, in particolare delle prestazioni neuromotorie e psicologiche; ma la natura e la forma dello strumento apprestato sono peculiari di un sistema di osservazione esterno alla situazione famigliare, scevro dalle componenti emotive ed affettive, come se si fosse voluto sostituire la tradizionale cultura della salute, le informazioni provenienti dai rapporti interumani e delle relative sensazioni e preoccupazioni con una griglia di valutazione obiettiva, perciò più serena e meno implicata, la cui condizione di applicazione è però I’ estraniarsi del genitore dal proprio ruolo e dal sentimento » (Poiletta, 1982: p. 34).
La “glasnost” della psicologia della salute
Una parte essenziale dell’ approccio psicologico ai problemi dello sviluppo deve perciò riguardare le condizioni del trasferimento delle informazioni e della conoscenza: non si tratta di proporre modelli normativi da usare come parametri per valutare il bambino reale, ma di rendere disponibili occasioni per il rafforzamento dei fattori di sviluppo a partire della realtà viva della relazione adulto/bambino. E’ questo un problema assai delicato, giacché la forza dell’ intervento psicologico non risiede tanto nel detenere un codice che fornisce potere interpretativo sulla realtà muta del soggetto, né nel metodo della ricostruzione induttiva o dell’ osservazione neutrale.
La realtà possiede infatti propri codici secondo cui agiscono i soggetti e questi di solito ne sono consapevoli e li condividono anche quando sono fonte di sofferenza e di disagio. Così la psicologia è confronto di codici e di interpretazioni, è, come diceva Riegei (1976), una dialettica. Per questo il punto di partenza non può che essere quello della condivisione, contrapposto alla separatezza, degli obiettivi, degli strumenti e dei metodi dell’ intervento psicologico. In questo senso non esiste una finalità che possa essere considerata come valore condiviso indipendentemente dal dispiegarsi dell’ intervento. Così, ad esempio, un intervento di psicologia della salute nella prima infanzia non è finalizzato a priori neppure verso il “bene” del bambino. Questo è un luogo comune e. come si dirà in seguito, i luoghi comuni devono essere smascherati come tat- tori di resistenza ad affrontare il cambiamento. I- noltre proporci come coloro che fanno il “bene” del bambino, può presupporre I’ implicita sottovalutazione dei nostri interlocutori adulti e sollecitare una delega alla soluzione delle difficoltà dello sviluppo. È meglio allora definire I’ obiettivo dell’ intervento – con provvisoria e brutta espressione – la “ottimizzazione delle risorse per lo sviluppo”, perché ciò riconosce che i nostri interlocutori sono portatori di “risorse” che vanno riscoperte, valorizzate e persino difese in funzione della promozione dello sviluppo del bambino.
Ma dove cercare queste risorse, quali sono le condizioni per la trasmissione dell’ informazione? Il modello che andiamo proponendo, a questo proposito, è di tipo cognitivo. Non già perché si ritenga il livello cognitivo il più rilevante o si vogliano trascurare i versanti emozionali o affettivi, ma perché si riconosce che lungo la via del lavoro su fattori quali la percezione, la rappresentazione, la valutazione di sé e del bambino è possibile trovare momenti di collaborazione e, se necessario, punti di forza per il cambiamento, più pertinenti ad un intervento di psicologia della salute. Ciò comporterà una provvisoria “semplificazione” del modello dell’ interazione adulto-bambino, ai soli fini pragmatici del chiarimento delle strategie di intervento. Prima di procedere in questa direzione varrà la pena tuttavia di fare un’ ultima premessa.
Buonsenso e luoghi comuni
Sarebbe del tutto ingenuo pensare alla possibilità di condividere obiettivi, strumenti e metodi (il nostro codice) senza pensare che essi possano, in certe condizioni, raccogliere dissenso e difficoltà. Il nostro codice può essere diverso e conflittuale rispetto al buonsenso dei nostri interlocutori e della loro rete istituzionale.
Il buonsenso o senso comune rappresenta la summa delle rappresentazioni e dei criteri condivisi entro un contesto più o meno ampio ed è, ad un tempo, descrittivo e prescrittivo dei comportamenti individuali entro tale contesto. Il buonsenso è generalmente conservativo e tende a sopravvivere anche a modificazioni strutturali. Esso è talvolta considerato un avversario dagli intellettuali, non però dagli storici, che, nella storiografia degli “annales”, riconoscono in esso, sotto il nome di “mentalità”, il centro della “lunga durata” e ne fanno perciò un oggetto di studio privilegiato.
Gli psicologi e gli antropologi considerano anch’ essi il buonsenso come oggetto di studio e hanno imparato a rispettarlo, anche in nome di un relativismo culturale che è forse idiosincratico per queste discipline. Al di là del suo indubbio valore adattativo, il buonsenso è tuttavia spesso anche portatore di sofferenza e di disagio, co
stringendo talora coattivamente il soggetto alla conformità. La forza principale del buonsenso è che esso rappresenta una “sapienza” capace di ridurre F incertezza e la percezione paralizzante del rischio. Anche se non ne desiderano livelli troppo bassi, gli uomini sembrano non sopportare livelli troppo alti di incertezza: per questo si rassegnano, si adeguano o aderiscono al buonsenso (probabilmente in funzione della legge della dissonanza cognitiva di Festinger) ogniqualvolta l’informazione necessaria alla soluzione di un problema risulta superiore a quella che si percepisce come disponibile o quando le contingenze trasformano la situazione problematica in una situazione anche rischiosa.
Il buonsenso fa uso, come propri strumenti non esclusivi, dei luoghi comuni. Si tratta di proposizioni assertive caratterizzate:
- per apparire risolutive di situazioni problematiche;
- per essere facilmente e fortemente condivisa;
- per il loro carattere parametrico.
Ogni comportamento di ruolo è corredato da luoghi comuni che ne presidiano la rappresentazione sociale tanto in chi lo interpreta quanto in chi ne è interlocutore. Il luogo comune ha anche un’ altra funzione: incanalare le tensioni di ruolo inter- e intra-personali verso territori meno conflittuali o verso una configurazione sostenibile del conflitto.
Affrontare il buonsenso per una via esplicita o declaratoria – ad esempio mediante una “riflessione di gruppo” – è impresa ardua e spesso fallimentare, perché ciò instaura una situazione di incertezza che può essere avvertita come rischiosa. In alcune situazioni di difficoltà di dialogo è sempre possibile ripiegare ipocritamente (etimologicamente “al di sopra della crisi”) convergendo alla fine intorno a qualche luogo comune dei rispettivi buonsensi, dello psicologo e del suo interlocutore.
Alla riflessione precritica occorre allora contrapporre una elaborazione epicritica, contestualizzata nello spazio, nel tempo e nel problema. Se la riflessione precritica rischia di portare alla condivisione sterile del luogo comune, f elaborazione epicritica presuppone invece appunto un lavoro di contestualizzazione, la delimitazione di una fenomenologia, || orientamento verso una soluzione. Occorre insomma passare dall’ avvertimento del disagio alla definizione del problema. Un problema, come direbbe Wittgenstein, si distingue da uno “pseudoproblema” per il fatto di avere una soluzione possibile. Il problema dispone la situazione di partenza in relazione ad un e- sito desiderato e rappresentandone gli aspetti che possono essere assunti come operandi per le necessarie operazioni di trasformazione. Benché il successo finale non sia scontato, l’ operare per problemi, in accordo con Simon, offre una via di certezza procedurale contrapposta all’ incertezza sostantiva, è orientato al fine piuttosto che alla causa, pone l’ accento sulla possibilità di agire piuttosto che sul ripiegamento paralizzante sulle difficoltà. Il processo di definizione del problema insieme al soggetto (e non per conto del soggetto) rappresenta il correlato più importante della trasparenza degli interventi di psicologia della salute.
Un modello per l’ interazione adulto/bambino
Le prime fasi evolutive si caratterizzano per una successione di periodi “critici” di più rapido avanzamento e di intensa utilizzazione delle risorse biologiche e ambientali.
La riorganizzazione delle funzioni biologiche, cognitive, affettive e d’ interazione sociale durante le fasi transizionali può rivelare più sensibili differenze individuali rispetto alla misurazione di conseguimenti consolidati. Nel corso dello sviluppo la predittività del successivo adattamento del soggetto alle condizioni ambientali non va ricercata tanto nell’ incidenza di un limitato pool di parametri evolutivi, ma nella complessiva valutazione della capacità del soggetto di utilizzare le risorse ambientali ed endogene disponibili. Vale a dire che risulta più significativo a questo scopo il configurarsi del processo che caratterizza le fasi di transizione tra una tappa evolutiva e la successiva, che non la valutazione degli stessi outcomes dello sviluppo. Sotto questo riguardo acquista un particolare rilievo la presenza di fattori di rischio anche sul versante dell’ interlocutore adulto del processo di sviluppo e di socializzazione.
L’ agente socializzante (generalmente la madre) svolge un ruolo determinante, per esprimersi nei termini di De Ajuriaguerra, di “specchio espressivo” del comportamento infantile. In situazioni di rischio biologico, psicologico e sociale la crescita della competenza materna o, in generale, dell’ adulto come agente socializzante può essere compromessa da fattori psicologici e di personalità che interferiscono con la percezione del bambino e del ruolo genitoriale. Molto spesso tali difficoltà si esprimono in termini di atteggiamenti conflittuali, alimentati soprattutto dall’ incapacità di osservare il comportamento del bambino e di collocarlo in una dimensione di sviluppo verso mete riconoscibili e realistiche. Si ritiene che sia proprio in tali situazioni che possa esprimere pienamente la propria efficacia un’ azione mirata alla promozione dello sviluppo infantile che faccia leva sulla crescita della competenza nell’ osservazione e nell’ interpretazione del comportamento del bambino, nelle modalità di interazione e di facilitazione sociale e nella definizione di realistiche mete-obiettivo verso cui orientare l’ interazione educativa.
Il punto “critico” che si vuole qui proporre all’ attenzione, è che l’ adulto mette in gioco nell’ interazione col bambino un’ insieme complesso di competenze, di assunzioni e di rappresentazioni che ne condizionano e ne orientano le azioni. Lo schema a p. 34 mette in evidenza alcuni aspetti salienti sotto questo profilo.
Il punto di partenza è rappresentato dalle conoscenze di base. Si tratta dell’ insieme composito e non sempre esplicito dei convincimenti generali e delle assunzioni più specifiche riguardanti il contesto dell’ interazione educativa. Esso è stato articolato in assunzioni sul bambino, sull’ interazione e sull’ apprendimento che servono come orientamento generale, che si traducono in protocolli impliciti e criteri valutativi che interagiscono con la percezione del bambino reale. Per questa via l’ adulto costruisce o modifica in buona parte la rappresentazione del bambino e definisce gli obiettivi della propria azione educativa.
L’ altra via parte dalla percezione di sé e dall’autostima. Questa non va vista in astratto, ma va collocata nel contesto delle variabili di personalità di base e, soprattutto, nell’ interazione con le conoscenze, con i convincimenti e le tensioni connessi al proprio ruolo, al bambino, alle relazioni sociali, ecc. Tutto ciò contribuisce a definire la rappresentazione di sé nel ruolo parentale (o più genericamente educativo).
La rappresentazione del bambino e la rappresentazione di sé nel ruolo parentale presiedono alla definizione degli obiettivi che orientano gli output comportamentali verso il bambino reale. Le risposte di quest’ ultimo vengono nuovamente percepite e monitorate dall’ adulto, chiudendo in tal modo il loop del flusso dell’ informazione.
E’ naturale che il bambino reale in tutto ciò non è un protagonista passivo ed il suo comportamento rappresenta un fattore di aggiustamento dei criteri valutativi, delle conoscenze di base e, soprattutto, interagisce fortemente con la rappresentazione del ruolo parentale e con gli obiettivi educativi.
L’interazione col bambino va tuttavia considerata in modo autonomo e relativamente indi- pendente. La rappresentazione di sé e del bambino presiede cognitivamente all’ interazione, che tuttavia è regolata anche per vie meno accessibili al monitoraggio cognitivo, come quelle che entrano in gioco nell’ holding o quelle mediante le quali madre e bambino regolano la propria attivazione entro un registro ottimale (Stem, 1974).
Si tratta di abilità e competenze non apprese, in gran parte innate e attivate o facilitate dalla stessa relazione tra adulto e bambino, una sorta di « i- stinto di coppia, non individuale per cui il comportamento dell’ uno si adegua a quello dell’ altro e viceversa » (Poiletta, 1982: p. 42).
Quando “tutto va bene” il gioco tra le rappresentazioni e l’ interazione col bambino reale costituisce un circolo virtuoso in grado di confermare o registrare le risorse impiegate nell’ interazione. Tuttavia esso può trasformarsi in un circolo vizioso dal quale è difficile uscire se intervengono fattori di difficoltà ed in situazioni estreme. Queste condizioni intervengono generalmente quando si verifica una discrepanza tra le aspettative connesse alla rappresentazione di sé e del bambino e le modalità reali dell’ interazione.
quando vengono meno le sollecitazioni per la reciproca esplorazione e le rappresentazioni tendono alla fine ad irrigidirsi in senso depressivo ed autosvalutativo oppure in direzione dell’ ostilità verso il bambino. In modo non automatico, sono molte le situazioni in cui tali circoli viziosi possono instaurarsi all’ interno delle relazioni madre/bambino. Ad esempio la mancanza di un sostegno adeguato o, peggio, una aperta ostilità o sfiducia nei confronti di una giovane madre, di genitori in condizioni di svantaggio socioeconomico e socioculturale, di coppie di genitori con un bambino portatore di handicap ecc. può impedire il superamento di crisi o di situazioni di stress ed esasperare tensioni e conflitti latenti sia al livello intrapsichico, sia al livello della relazione tra adulti, sia in termini di rifiuto del bambino.
Il ruolo importante giocato dalle rappresentazioni di sé e del bambino, pur senza trascurare altre modalità di approccio, rende praticabile, come fattore di promozione del benessere, una strategia di educazione alla salute, non più mirata alla semplice trasmissione delle informazioni, ma come momento di attivazione delle risorse su progetti di promozione della salute e avendo come referente principale non solo i genitori, i caregivers, ma la rete sociale, nelle sue diverse articolazioni (Cohen & Wills, 1985; Sgarro, 1988).
Per concretizzarsi, tutto ciò ha naturalmente bisogno sia di contenitori che di vettori adeguati, cioè di strumenti e metodi che siano contemporaneamente di elevata attendibilità sul piano scientifico e di flessibilità d’ uso e versatilità anche in contesti eterogenei. Il termine di “vettore” è qui impiegato per enfatizzare che lo strumento ha in se stesso una rilevanza marginale, mentre importa soprattutto la possibilità che, per suo tramite, si veicolino contenuti e procedute adeguate alla finalità generale della valorizzazione e della promozione delle risorse di salute. Lo psicologo della salute potrà cercare quindi nel repertorio della psicologia tali strumenti, badando, ove possibile, ad adattarli alle condizioni di trasparenza e di efficacia che prima abbiamo cercato di delineare.
Un esempio: Il Macomb 0-3 Project
Può certamente rientrare in questa prospettiva, tanto per fare un esempio, il Macomb 0-3 Project Core Curriculum (Hutinger & Al. 1983), uno strumento di particolare efficacia sviluppato recentemente negli Stati Uniti per la valutazione- intervento sullo sviluppo infantile nelle prime fasi evolutive. Esso nasce dall’ esigenza di raccogliere in modo sistematico le informazioni e le conoscenze disponibili su diverse aree della prima infanzia e di fornire un aiuto e trasmettere delle competenze a persone non specialiste dello sviluppo infantile in aree dove non siano presenti o non siano disponibili dei professionisti della prima infanzia.
L’ assunto di base su cui si fonda il Core Curriculum è l’ ipotesi che le diverse abilità motorie e cognitive vengano acquisite tramite il progressivo sviluppo di sotto-abilità specifiche.
Le abilità prese in considerazione nel core Curriculum sono raggruppate e classificate in sei diverse grandi categorie: abilità grosso-motorie, motorie fini, cognitive, comunicative, sociali e autonomia.
Secondo gli autori del Progetto Macomb, bambini diversi mostrano, generalmente, un diverso ritmo di sviluppo nelle sei differenti categorie, cosicché non è possibile, in base alla rilevazione dell’ avvenuta acquisizione di una specifica abilità di una categoria, poter inferire il grado di sviluppo di abilità di altre categorie. Alcune caratteristiche peculiari rendono il Core Curriculum uno strumento di grande utilità applicativa. Tale strumento consente, infatti, di individualizzare l’ azione educativa e di rinforzo dello sviluppo attraverso la programmazione di interventi che tengano conto dello specifico livello di sviluppo mostrato da ogni singolo bambino nelle diverse aree di abilità e che prevedano l’ acquisizione delle abilità mancanti tramite F apprendimento dei pre-requisiti richiesti. Il Core Curriculum indica, inoltre, le variazioni da utilizzare nel caso in cui debba essere applicato a bambini portatori di specifici handicap o disabilità. Il punto centrale che rende il Core Curriculum un importante strumento applicativo è F ampia serie di indicazioni e consigli fomiti per facilitare e rendere ottimale F interazione degli operatori e soprattutto dei caregivers (genitori, educatori) con bambini di età compresa tra zero e tre anni.
Tali indicazioni riguardano, essenzialmente, il modo di comunicare con il bambino, gli atteggiamenti da tenere nei suoi confronti, i particolari ambientali a cui prestare attenzione. Una delle chiavi di volta è sotto questo profilo F uso di definizioni di tipo operazionale delle attività del bambino, le quali non solo consentono una più chiara individuazione del reale livello di sviluppo, ma rappresentano simultaneamente uno strumento per la facilitazione dell’ acquisizione delle abilità e, soprattutto, veicolano forme di interazione più realistiche ed adeguate tra bambino e caregiver.
Tutto questo ha diretti ed intuibili riflessi nella facilitazione dei flussi di comunicazione tra adulto e bambino e, in questo contesto, può aspirare a risolvere difficoltà relazionali e di percezione della propria identità parentale che nell’ adulto spesso sono sostenute da una difficoltà di valutazione appropriata e realistica delle capacità del bambino e di definizione delle mete educative. Una larga parte delle procedure previste dal Progetto Macomb insiste del resto proprio sulla definizione operazionale delle mete dello sviluppo. Non si tratta soltanto di generiche aspirazioni genitoriali o di definizioni astratte degli operatori che prescindano dalla concreta valutazione del bambino, quanto di un costante lavoro sulle aspettative e di individuazione delle concrete tappe di sviluppo che si confrontano via via con le reali performances del bambino.
In questo senso il Macomb non rappresenta solo un sostegno diretto alle abilità del bambino, ma interviene esplicitamente sulle competenze dei caregivers e, indirettamente, sulle variabili di autostima e di personalità coinvolte nella relazione tra caregivers e bambino. In un contesto più allargato alle diverse situazioni educative il Macomb può rappresentare uno strumento di attivazione di più estese reti sociali di sostegno e promozione dello sviluppo infantile. Esso può infatti facilmente adattarsi a forme di attività sia individuali che collettive mirate alla promozione e al potenziamento dello sviluppo (p.es. attraverso l’ animazione e il gioco). Infine può rappresentare uno strumento di programmazione di eventuali interventi in contesti educativi e socio-assistenziali (ad esempio negli asili nido).
L’ ipotesi generale che deve guidare l’ uso di un simile strumento è che esso si inserisca entro un appropriato intervento di sostegno sociale centrato sul rinforzo delle competenze interattive tra adulti e bambini, sia nel contesto familiare che in altri contesti socio-educativi. Esso deve essere contemporaneamente diretto ad agire sia sulle variabili di sviluppo del bambino che sulle variabili sociali e di personalità coinvolte nel sistema delle relazioni familiari, educative e sociali. Ma il suo uso deve essere discreto e rispettoso. Esso deve suggerire la paziente osservazione ed il rispetto per i tempi del bambino e per il suo diritto ad uno sviluppo sano ed equilibrato; deve sostenere la madre nel convincimento di essere un buon interlocutore e contenitore del proprio bambino e deve valorizzarne le competenze; deve essere infine uno strumento che dia voce e spazio a che si occupa normalmente del bambino e per questo il nostro linguaggio dovrà essere privo di ogni esoterismo: questo faciliterà a noi stessi il compito di scoprire una realtà più ricca di risorse e di possibilità di quanto non accada di cogliere col solo linguaggio e col solo metodo della psicologia clinica o sperimentale.
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