Disabilità
Come psicologi ci occupiamo della disabilità centrando l’intervento nei sistemi di convivenza.
Sistemi pervasi da culture prima ancora che da disturbi, malattie. Porre il baricentro nei sistemi di convivenza vuol dire implicarsi nel dare senso ai rapporti, privandosi della pretesa di correggerli.
Vuol dire leggere desideri, paure, vissuti di impotenza, bisogno di controllo, angoscia, richieste di affetto, in quelli che si presentano come agìti aggressivi, capricci, stereotipie, espressioni di un disturbo organico.
Pensiamo alla crescita esponenziale del numero di diagnosi riferite a bambini e ragazzi che frequentano le scuole dell’obbligo.
La diagnosi mette a carico dell’individuo un problema che va letto in una cornice di relazioni non scontata, da riconoscere e ricostruire. Pensiamo a un problema tipico degli ultimi anni che vede spesso scuola e famiglia confliggere in maniera aspra: definire se un alunno sia in grado o meno di seguire il “programma della classe”. Tale problema porta spesso scuola e famiglie a scontrarsi sulle caratteristiche individuali dell’alunno: è “oggettivamente” in grado di capire la matematica? È in grado di effettuare le attività pratiche? È in grado di scrivere? È pericoloso?
Le argomentazioni volte a dimostrare la condotta disturbante, la pericolosità, piuttosto che l’abilità in attività pratiche o l’adeguatezza dell’alunno o dello studente disabile si declinano in scambi in cui la conoscenza e il desiderio di capire e confrontarsi è perseguita solo all’apparenza. Il vero oggetto del contendere (l’assetto che vede due parti implicate in una sorta di trattativa fa di per sé riflettere) è dato da un lato dalla possibilità che la scuola protegga la propria prassi, dall’altro dallo scongiurare il pericolo che il proprio figlio sia escluso, messo ai margini.
Le famiglie escono spesso da questi incontri con la sensazione di aver trattato con incompetenti violenti, le scuole con la sensazione di avere a che fare con genitori “che non vogliono accettare la disabilità” del figlio. Quante volte sentiamo dire che i giovani di oggi sono maleducati rispetto a quelli di una volta? Quante ancora sentiamo dire: “quell’insegnante ce l’ha con mio figlio”? Eppure non si parla quasi mai del contesto entro cui nascono questi problemi, non si parla quasi mai del fatto che la scuola dell’obbligo stia perdendo nell’immaginario collettivo la sua funzione di luogo in cui i giovani si formano entro un percorso che li porterà a trovare un lavoro dignitoso, che li porterà a migliorare le condizioni socio-economiche della famiglia di origine. Non c’è da individuare un colpevole, sappiamo che la faccenda è complessa. Con la disoccupazione giovanile degli ultimi anni, per dirne una, la storica alleanza tra scuola e famiglia sembra oggi lontana anni luce.
Pensiamo alla logorrea incontrollata e sconnessa di un adolescente affetto da sindrome dello spettro autistico che in classe ripete in maniera incessante le frasi del protagonista del suo cartone animato preferito.
Si può certo pensare alla logorrea come ad una caratteristica specifica del disturbo di quel ragazzo. Tuttavia, pensare alla logorrea come mera espressione della patologia rischia di evocare interventi “normalizzanti”, strategie volte a contenere l’irruenza di quel comportamento. Motivandolo per esempio ad un comportamento congruo, pianificando dei rinforzi, degli incentivi ad avere un atteggiamento composto, proponendo un’attività che lo tenga occupato, riducendo le ore di frequenza scolastica. Possiamo tuttavia ipotizzare che la logorrea esprima un’emozione. Può per esempio essere un modo per attutire la violenza sperimentata durante un cambio dell’ora, quando l’avvicendarsi di due diversi insegnanti e la conclusione forzata di un’attività provoca una forte frustrazione. Oppure può essere un modo per gestire l’attrazione verso le compagne di classe, poco codificata e avvertita come pericolosa, distruttiva, angosciante. Come? Allagando con un fiume di parole uno “spazio” che altrimenti sarebbe occupato da qualcosa di non noto, non sopportabile. In quest’ottica la funzione di controllo esercitata dalla logorrea appare evidente.
Ipotizzare emozioni entro rapporti, capire, va oltre la pretesa di correggere.
Riconoscere nell’altro un’emozione consente di parlare con quell’emozione. Legittimare e riconoscere l’emozionalità delle persone con diagnosi, con disabilità, è l’unico modo per trattare la condotta intesa come manifestazione emozionale e non come manifestazione patologica. Riconoscere emozioni, pensarle, parlarne, può per esempio rendere non necessario l’agìto. Restando nell’esempio citato, la pretesa di arginare la logorrea collocandola nei confini dei sintomi dell’autismo, rischia di portare ad interventi volti ad esercitare un potere controllante. Interventi che, in altri termini, tentano di risolvere un problema utilizzando lo stesso linguaggio del problema.
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